Imprenditori italiani in ritirata in Ticino?
Molte chiusure nel primo semestre, per il Giorno troppi controlli nella Confederazione
Non è tutto oro quel che luccica per le imprese italiane trasferite in Ticino, o almeno così sembra secondo quanto riporta l’edizione odierna del Giorno. Delle 395 dite che hanno chiuso nei primi sei mesi dell’anno più della metà erano gestite da imprenditori italiani che hanno tentato la fortuna al di qua della frontiera, attratti dalla tassazione più che sopportabile e dalla scarsa burocrazia presenti nella Confederazione.
Tra i motivi addotti dal foglio milanese figurano i controlli capillari cui sono sottoposte le società, ai quali non sono evidentemente abituati i manager della Penisola che, in questo senso, manifestano lacune di tipo organizzativo che determinano spesso la cessazione dell’attività. Lacune che si traducono in concreto in salari non in linea con quanto prevedono i contratti collettivi di lavoro e inosservanza delle norme sulla sicurezza.
Anche a livello fiscale, nonostante aliquote che sono la metà di quelle in vigore nella Penisola, emergono difficoltà, soprattutto per coloro che aderiscono al concordato preventivo ma che in seguito non riescono a rispettare i parametri di bilancio prefissati. Inoltre, sempre a livello tributario, in Svizzera non è possibile rateizzare le imposte dovute e i relativi importi vanno corrisposti per intero e subito.
Se quindi si è in presenza di una minore pressione fiscale, servizi efficienti, burocrazia inesistente e un quadro normativo certo (tutte caratteristiche idonee per chi vuole impiantare un’attività produttiva), l’imprenditore italiano sembra far fatica ad adattarsi a un sistema rigido e preciso come quello elvetico che non consente scorciatoie. Soprattutto se chi ha lasciato l’Italia lo ha fatto unicamente per ottenere delle agevolazioni dal profilo amministrativo, senza però una chiara strategia industriale.
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