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Internamento amministrativo, coinvolte 60’000 persone

Nel corso del 20esimo secolo, almeno 60'000 persone sono state internate in circa 650 istituti in Svizzera senza aver violato alcuna legge sulla base di una decisione amministrativa.

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È la conclusione cui è giunta la Commissione peritale indipendente (CPI) per gli internamenti amministrativi per la quale hanno lavorato circa 40 ricercatori dal 2014 e i cui risultati sono stati presentati lunedì ai media.

Sulla base di ricerche d’archivio e interviste, la CPI è giunta inoltre alla conclusione che i traumi subiti da queste persone, considerate pericolose per il loro stile di vita e respinte ai margini della società, non solo hanno rafforzato la loro esclusione sociale, ma in alcuni hanno avuto effetti deleteri anche sui discendenti.

Poveri dissoluti

Le persone senza un lavoro fisso o che vivevano in un ambiente personale e familiare sfavorevole rischiavano il collocamento coatto in istituti. Più a rischio erano i membri di gruppi socialmente discriminati, come gli Jenisch o i figli illegittimi, nonché le persone che entravano in conflitto con le autorità.

Nel secondo dopoguerra gli internamenti hanno colpito soprattutto i giovani che si ribellavano alle pratiche educative repressive o agli abusi negli istituti. Dalle ricerche emerge che tali provvedimenti venivano spesso decisi da gruppi socialmente privilegiati.

Legislazione eterogenea

Ogni Cantone aveva una propria legislazione che permetteva alle autorità di internare le persone, sebbene non avessero commesso alcun reato. Le prime norme al riguardo furono emanate a partire dalla metà del XIX, spesso in concomitanza con la fondazione di istituti di lavoro in cui venivano rinchiuse le persone colpite da povertà o accusate di essere scansafatiche, oppure perché colpite dal marchio infamante dell'”alcolismo” o della “prostituzione”. L’idea di fondo era di prevenire stili di vita indesiderati e non conformi alle norme della società borghese.

Le procedure e i criteri per l’applicazione degli internamenti lasciavano alle autorità un ampio margine di discrezionalità, ciò che ha favorito l’applicazione arbitraria della legge e le violazioni dei diritti fondamentali delle persone coinvolte. Le persone internate non avevano quasi alcun mezzo di ricorso contro queste decisioni. Solo a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso si è prestata maggiore attenzione al diritto di ricorso.

La flessibilità delle legislazioni cantonali ha favorito l’impiego dell’internamento amministrativo per un lungo periodo. Le autorità hanno mostrato scarsa disponibilità ad abolire tali pratiche poiché si trattava di uno strumento conveniente ed economico per soddisfare gli ideali sociali di ordine.

Nessun vera cesura

Nel 1981 il sistema degli internamenti amministrativi è stato sostituito dalla “privazione della libertà a scopo d’assistenza”. Benché la nuova regolamentazione nell’ambito del Codice civile abbia limitato il campo di applicazione e migliorato la protezione giuridica delle persone interessate, non si può parlare di una cesura assoluta.

La privazione della libertà al di fuori del campo di applicazione del diritto penale esiste ancora oggi, ad esempio sotto forma di “ricovero a scopo di assistenza” o di detenzione ai sensi delle leggi sull’espulsione degli stranieri.

Più uomini che donne

Stando ai risultati delle ricerche, la maggior parte delle persone internate, circa l’80%, era di sesso maschile. Gli uomini venivano accusati soprattutto di essere “scansafatiche” o di consumare alcol in modo eccessivo. L’internamento delle donne veniva giustificato soprattutto sulla base di violazioni delle norme sessuali, come le relazioni extraconiugali o il sospetto di prostituzione.

L’applicazione degli internamenti amministrativi ha così rafforzato la separazione dei ruoli tra uomo e donna. Gli uomini dovevano occuparsi del mantenimento economico della famiglia, le donne della casa e dei bambini. La sessualità femminile aveva posto esclusivamente nell’ambito del matrimonio.

Di conseguenza, negli istituti gli uomini svolgevano attività fisiche all’aperto, mentre le donne lavori domestici. Le differenze tra i sessi si riscontrano anche nell’ambito delle procedure di rilascio: se la disponibilità ad adattarsi e a lavorare regolarmente era considerata con favore per entrambi i sessi, le donne potevano evitare l’internamento amministrativo attraverso il matrimonio.

Esclusione sociale

Gli internamenti amministrativi erano utilizzati per affrontare problemi legati a persone stigmatizzate ancor prima del loro internamento o che vivevano ai margini della società. Ma invece di promuovere la loro integrazione sociale, le misure adottate dalle autorità ne hanno rafforzato l’esclusione. Insomma, gli internamenti non hanno fatto che aumentare le disuguaglianze sociali.

Per la direzione degli istituti contavano di più gli aspetti economici e della sicurezza, anziché l’integrazione e il rispetto delle persone internate: le violenze fisiche e sessuali non erano infatti rare.

Anche discendenti coinvolti

Dalla ricerca risulta che le esperienze traumatiche vissute durante l’internamento hanno accompagnato queste persone per tutta la vita. Il fatto di essere state rinchiuse in un istituto ha comportato un’ulteriore stigmatizzazione che ha reso l’integrazione ancor più difficile dopo il rilascio, specie per i giovani, che rimanevano tra l’altro sotto l’occhio vigile delle autorità anche da “liberi”.

Data la scarsa formazione loro offerta, dopo il rilascio hanno spesso dovuto accettare lavori non qualificati e poco retribuiti. Ciò ha fatto sì che le persone fossero esposte a un alto rischio di povertà. In molti casi le esperienze traumatiche vissute dalle persone internate hanno avuto conseguenze anche sui loro figli.
 

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