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Mimma Viglezio

Quote rosa

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Ho messo il rossetto rosso

in segno di lutto.

Carmen Consoli, Mio zio

È più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago

che una donna manager entri in un consiglio di amministrazione,

ma io ce l’ho fatta. Non è stata una passeggiata, sono battaglie che

lasciano i segni, ti possono indurire, a volte ti incattiviscono pure.

Questa piega amara sulla fronte, per esempio, prima non ce l’avevo,

ma che volete, ogni cosa ha il suo prezzo e se hai i soldi per

pagarti un po’ di botulino si vede molto meno.

Io appartengo alla generazione di donne che ha rinunciato ai

figli per la carriera. Non me ne pento. Ho coltivato delle amicizie

meravigliose, mica è detto che una donna per realizzarsi deve per

forza essere mamma come dice la pubblicità dei pannolini. Poi

tanto ci sono gli uomini che ti scaldano il cuore, io addirittura ho

sposato un collega. È bello lavorare spalla a spalla, sentirsi complici

e uguali, tonnellate di email da smaltire la sera prima di ritrovarsi

finalmente a letto, stessi iPad, stessi orari, stesso stress,

stessi iPhone o BlackBerry (c’è sempre qualcuno che preferisce il

BlackBerry), stessi viaggi di lavoro, Frecciarossa, wi-fi, stesse vip

lounge, stessi stipendi… Ecco, finché sono stati gli stessi è andato

tutto bene, io ci ho messo un po’ a raggiungerlo, si sa, a pari curriculum

noi donne siamo considerate meno spendibili, meno autorevoli,

dobbiamo essere tre volte più brave per ottenere lo stesso

risultato, ma alla fine ce l’ho fatta.

Il problema è che poi l’ho superato, ho cominciato a guadagnare

più di lui. Non l’ho fatto apposta, anzi mi vergognavo anche

un po’… Subito non gliel’ho detto, non so perché, ma dentro

di me mi sentivo in colpa, come se superarlo economicamente

fosse un affronto alla sua virilità, avevo paura di umiliarlo. Ma

poi mi sono detta che il mondo era ben cambiato dai tempi di

mio padre che non ha fatto mai lavorare la mamma anche se era

laureata, per decoro, per decenza, che non si dica che la sua signora

era costretta a faticare; a lei invece sarebbe piaciuto tanto, ma

non l’ha mai contrariato. Io sì, e così ho fatto outing offrendogli

un weekend cinque stelle a Parigi. Da lì sono iniziati i guai; lentamente,

sottilmente, un veleno si è infiltrato nel nostro rapporto.

Io non ero più così simpatica né tanto intelligente come prima,

anzi ogni motivo era buono per assestare un colpetto alla mia

autostima che si sa, nelle donne è già traballante di suo. Piano

piano ha cominciato a colpirmi, prima in privato poi in pubblico,

davanti ad amici e colleghi. Un risentimento sordo, un sarcasmo

feroce, una critica impietosa e continua. Non andava mai bene

quello che facevo, un match senza esclusione di colpi, anzi un

colpo dietro l’altro, fino a quello definitivo, un portacenere di

marmo tirato in piena fronte una sera di maggio, appena tornati

da un convegno sui tassi di interesse. Ero ancora viva, poteva salvarmi

e invece mi guardava con stupore, immobile, io respiravo a

fatica, finalmente debole e arrendevole. Mi aveva messo a terra,

non voleva farlo ma non aveva più argomenti per spiegarmi la sua

inadeguatezza, ero cresciuta troppo per lui, non ce la faceva a

starmi al passo, non riusciva più a reggere il confronto… Si sentiva

inferiore e non aveva altra scelta che ricorrere alla forza fisica,

in quella era ancora superiore a me.

Almeno ha vinto l’ultima partita.

Le edicole di Napoli

Mostra i denti il pescecane

e si vede che li ha

Mackie Messer ha un coltello

ma vedere non lo fa.

Bertolt Brecht, L’opera da tre soldi

Si chiamano edicole ma non vendono i giornali, ce ne sono a

ogni angolo di strada a Napoli e persino nei cortili dentro ai palazzi:

sono dei piccoli altari all’aperto, «templi cristiani e insieme

pagani», come li chiama Roberto Saviano, che alla città vuole bene

nonostante tutto. Sono luoghi sacri fai-da-te, servono per celebrare

i santi protettori e i morti del quartiere senza andare tutti i

giorni al cimitero. Ci sono le offerte, le preghiere, i fiori, i ceri, gli

ex voto… È sicuro che al morto piace di più rimanere nelle vicinanze

di casa, lì dove è vissuto, in compagnia degli amici, insieme

ai parenti, ai vicini, ai passanti, con l’odore di fritto dei panzarotti

e i ragazzini che gli buttano la palla in faccia sopra alla fotografia.

È un po’ come se fossero ancora vivi: guardano, sentono, sono

rispettati.

È naturale che nell’edicola i morti stanno meglio. Intanto le

foto sono più belle che sulla lapide, almeno la mia è veramente

uno splendore, modestamente lo scatto me l’ha fatto mia sorella

Titina che è un talento, poi al laboratorio di sviluppo l’hanno

ingrandita, è la più grande di tutte la mia foto, e hanno anche

rinforzato il rossetto e la linea agli occhi. Poi io ho la cornice in

puro ossidal color oro che la pioggia non la sfiora neanche, si nota

proprio in mezzo al vicolo, spicca, anzi devo dire che sovrasta

pure l’immagine del santo medico, pace all’anima sua, che mi

perdoni, ma intanto si fermano tutti a mettere un cero e così pure

il santo si guadagna una preghiera in più, che di questi tempi non

è poco.

Ti dico solo che l’altare mio è più illuminato di quello di Diego

Armando Maradona a piazzetta Nilo, sì, dove c’è pure un capello

suo autenticato sotto vetro, tenuto come una reliquia, che

poi Diego è ancora vivo mentre io sono morta, anche se si direbbe

il contrario per quanto io brillo di luce nella notte… Ma è

ancora vivo, sì? Armando Maradona?

Scusate ma è un po’ che non frequento il calcio, anzi diciamo

che non sono stata mai tifosa veramente, lo facevo più che altro

per Tonino che ci moriva dietro alla sua squadra… e adesso chissà

come ci sforma che c’ho la foto cchiù bella ‘e Maradona.

Il titolo sul giornale invece non era tanto grande: «Ragazza

sessantaseienne uccisa da venticinque coltellate»… No, scusate è

il contrario: venticinque anni, sessantasei coltellate, mi sbaglio

sempre. Due coltellate e mezzo per ogni anno della mia breve vita,

solo venti dritte al cuore. Ci vuole tempo per dare tutte quelle

coltellate, pensate a quanto è lungo un minuto… Be’, ce ne vogliono

almeno tre senza fermarsi mai, e lui non si è fermato neanche

per riprendere fiato, questa volta aveva paura che non schiattavo.

Perché c’aveva già provato l’anno prima, in mezzo a corso

Garibaldi: è arrivato di corsa e mi ha dato quattro fendenti al

collo ma qualcuno l’ha fermato, sono stata dieci giorni in coma,

poi ce l’ho fatta. L’hanno mandato ai domiciliari perché dicevano

che era stato un raptus e un raptus non viene due volte, invece hai

visto che sorpresa, caro giudice?

Ma io tanto insieme a lui non ci tornavo neanche morta… E

lui l’ha capito che non avevo più paura, questi uomini qui se si

accorgono che siete diventate forti non lo possono sopportare.

Cadendo a terra ho sfondato la vetrina dell’alimentari di Michele.

Certo, se lo lasciavano in galera era meglio per tutti, anche per

Michele.

Transafricana

‘Cause we’re moving right out of Babylon,

and we’re going to our father’s land.

Bob Marley, Africa Unite

«Se ce l’avete, è perché ve l’ha portato un camion»: così c’è scritto

dietro gli enormi tir che trasportano ogni tipo di merce lungo le

high way americane.

Anche in Africa ci sono strade chilometriche che attraversano gli

Stati, ma lì i camion ti consegnano anche un’altra merce che nessuno

vuole: giorno e notte, su e giù per il Paese, i nostri camionisti ci portano

a casa l’Aids. Non c’è scampo, mogli e promesse spose sono

tutte contagiate, è una catena ininterrotta che parte dal Sudafrica,

attraversa lo Zimbabwe e lo Zambia: è la transafricana, ma la chiamano

l’autostrada della morte. No, non sono gli incidenti stradali ad

alzare la media dei decessi ma questa nuova malattia che non dà

scampo.

A ogni fermata per fare benzina c’è una prostituta che accetta un

rapporto non protetto: glielo chiedono e loro lo fanno, devono guadagnarsi

la giornata e il cliente ha sempre ragione… Una dopo l’altra

si ammalano tutte e per guadagnarsi da vivere sono costrette a morire.

Ai nostri uomini non piace usare il preservativo, d’altronde lo

ha detto anche il papa quando è venuto quaggiù che non si devono

usare questi profilattici. Dio non vuole, e nemmeno mio marito,

che in casa nostra è come un dio, no, neanche mio marito le

vuole queste protezioni di plastica, e come si deve fare sesso nel

nostro letto lo decide lui.

Alla missione predicano l’astinenza, ma gli uomini non ci vanno

mai a catechismo perché sono sempre su e giù col camion a

lavorare. E che vuoi? Quando stai lontano per un mese o più non

puoi aspettare di tornare a casa, la natura ti chiama, ti devi sfogare

e la catena si allunga come un rosario infinito. Se anche il vaccino

fosse un bicchiere d’acqua noi continueremmo a morire perché

qui non arrivano né acqua né medicine e i nostri figli nascono

già condannati.

Una ragazza del villaggio mi ha detto che ci sarebbe un modo

per proteggerci di nascosto: i dottori volanti hanno portato delle

pasticche segrete che possiamo infilarci da sole poco prima del

dovere coniugale, ma io ho avuto paura di essere scoperta, mio

marito non mi avrebbe mai perdonato e così mi sono ammalata,

come tutti…

Ditelo ai dottori volanti, ai missionari, alle donne di città che

vogliono aiutarci: qui il sesso appartiene agli uomini, è scritto

così da sempre, chi siamo noi per cambiare?

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