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Politica fiscale: quanti interrogativi sul “nuovo consenso”

Alla ricerca del "nuovo consenso" tvsvizzera

Da qualche tempo si parla di "nuovo consenso" sulla politica fiscale. E cioè: in epoca di persistente stagnazione economica - e di tassi di interesse reali molto bassi (per motivi che ancora non sono proprio chiari) - sarebbe particolarmente efficace usare la spesa pubblica (specialmente in investimenti), finanziata col debito, per espandere la crescita. Intuitivamente, poiché indebitarsi oggi costa molto poco, sarebbe un buon momento per farlo.


Secondo alcuni, è ciò che dovremmo aspettarci dalla futura politica fiscale di Donald Trump. Secondo altri, invece, il programma del presidente eletto degli Stati Uniti avrebbe natura diversa. Sarebbe sempre quello di aumentare fortemente il deficit pubblico (finanziato a debito), ma diminuendo le tasse e non aumentando la spesa pubblica. Ricerca accademica recente insiste, ad esempio, sulla maggiore efficacia di espansioni del deficit (finanziate a debito), causate da tagli di tasse, piuttosto che da incrementi di spesaCollegamento esterno.

Abbiamo, quindi, due visioni contrapposte. Da un lato il presunto “nuovo consenso”: usare massicciamente la spesa in periodi di bassi tassi di interesse. Dall’altro, forse, Trump, che sembra riecheggiare la visione secondo cui può anche andare bene fare più deficit, basta che sia generato da un taglio delle tasse, non da aumenti di spesa.

Di fronte a questo dibattito, scaturiscono alcune considerazioni.

  1. È innanzitutto interessante che ancora persistano visioni così radicalmente diverse sull’annosa questione: meglio aumentare la spesa o diminuire le tasse? Si noti che il “dilemma” presume che espandere il deficit, e aumentare il debito, sia (oggi) comunque una buona idea.
  2. Supponiamo che i tassi di interesse reali siano così bassi perché il tasso di crescita potenziale dell’economia è strutturalmente più basso (la cosiddetta ipotesi di “stagnazione secolare”): come farà uno Stato a ripagare tutto il nuovo debito in futuro? Ripagare il debito, infatti, richiede necessariamente maggiore crescita futura.
  3. La risposta al punto precedente di solito è: ma è proprio espandendo il debito oggi che si genererà la crescita futura necessaria a ripagarlo. L’argomento sembra la riedizione, in salsa keynesiana, e cioè dal lato della domanda, della vecchia supply side economics reaganiana (i tagli delle tasse si autoripagano perché generano crescita). Inutile ricordare il discredito che ancora oggi quelle teorie si portano dietro.

Presupposti e interrogativi

Riassumendo: il presunto “nuovo consenso” sulla politica fiscale richiama alla mente, nella sua logica, la “vodoo economics” reaganiana. Non parla di tasse, ma di spesa pubblica. Ma non può che partire da una serie di assunti cruciali:

  1. che sia vero che la crescita potenziale (cioè di lungo periodo) sia diminuita (negli Usa o in Europa). Un assunto mai facilmente dimostrabile, perché misurare il tasso di crescita potenziale di un’economia è un esercizio che rimane ancora soggetto a diversi margini di errore, un po’ al confine tra arte e scienza (pur trattandosi ovviamente di un esercizio che vale la pena continuare a fare);
  2. che maggior debito generato con la spesa pubblica sia in grado di risollevare il tasso di crescita potenziale dell’economia. È un assunto molto diverso dalla posizione keynesiana classica, che di solito pensa al deficit come strumento per espandere la crescita ciclica;
  3. che il rallentamento della crescita potenziale, se vero, dipende da una diminuzione della produttività, e non, ad esempio, da fattori demografici (il crescente invecchiamento della popolazione). In tal caso, se uno stato fa più spesa in investimenti pubblici, è difficile immaginare che possa mutare la dinamica demografica;
  4. che maggiore spesa finanziata con debito sia in grado di far crescere la produttività. Quest’ultimo è un assunto non illogico, ma, ancora una volta, difficilmente dimostrabile e soprattutto fortemente variabile da paese a paese. La capacità di maggiori investimenti pubblici di aumentare la produttività, infatti, dipende da una miriade di fattori, quali la qualità delle istituzioni, il tipo di regolamentazioni, il livello di capitale pubblico già installato, il grado (presunto) di complementarietà tra capitale pubblico e privato.

Queste considerazioni, volutamente un po’ sparse, ci lasciano con alcuni interrogativi.

Innanzitutto: è vero che il tasso di crescita potenziale (e con esso il tasso di interesse reale naturale) è calato nelle economie avanzate? Sembra una riedizione del dilemma degli anni Settanta, quando la misurazione errata del tasso di crescita potenziale dell’economia portò molte banche centrali di paesi industrializzati a errori madornali di politica monetaria.

Se è vero il punto precedente, maggiore deficit (e debito) sono in grado di espandere il tasso di crescita potenziale? E se anche ciò fosse vero, ha ragione il “nuovo consenso” secondo cui lo strumento ottimale è la spesa pubblica (in particolare in investimenti); oppure ha ragione la ricerca accademica che sostiene che, pur essendo desiderabile espandere il debito, la strada debba essere assolutamente quella di minori tasse?

Tutte domande (a mio avviso) molto stimolanti. Ma che certamente non sembrano illustrare un “nuovo consenso”.

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