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La debolezza dell’Arabia Saudita, lo scontro con l’Iran e il disimpegno americano

di Laura Canali

di Dario Fabbri (Limes)

Oltre a rappresentare l’ultimo episodio nell’endemico conflitto arabo-persiano, l’uccisione del leader sciita Nimr al-Nimr da parte di Riyad segnala l’intrinseca debolezza dell’Arabia Saudita e il tentativo di testare l’equilibrio di potenza che gli americani cercano di imporre al Medioriente.

Di fatto un possedimento personale della famiglia regnante, l’Arabia Saudita si regge sul benessere garantito ai cittadini dalla rendita petrolifera e dall’ideologia wahabita che legittima i Saud quali custodi di Mecca e Medina. Benché la maggioranza della popolazione sia sunnita, la provincia orientale di Al-Sharqiyya, la più ricca di giacimenti petroliferi, è abitata in maggioranza da sciiti e storicamente Riyad ne disinnesca le spinte autonomiste con un misto di repressione ed elargizioni finanziarie.

A livello internazionale il principale nemico del paese è l’Iran sciita che, erede della bimillenaria tradizione imperiale persiana, al pari di sauditi e turchi, vorrebbe dominare l’intero Medioriente e che Riyad accusa di sobillare proprio i sudditi di Al-Sharqiyya. Nel corso dei decenni Saud e persiani si sono scontrati per procura in numerosi teatri bellici – dall’Oman al Libano, dall’Iraq al Bahrein, dalla Siria allo Yemen – e dal 1979 Riyad ha sempre potuto contare in funzione anti-persiana sull’ombrello difensivo americano.

Il disimpegno statunitense dalla regione e l’apertura di Obama alla Repubblica Islamica, culminata nell’accordo sul programma nucleare di Teheran raggiunto lo scorso luglio, hanno minato le certezze di casa Saud. Intenzionata ad estricarsi dagli a-strategici conflitti mediorientali per concentrarsi sull’Asia-Pacifico, la Casa Bianca favorisce l’instaurazione di un equilibrio tra le principali potenze levantine – Turchia, Israele, Arabia Saudita, Iran – che ora costringe Riyad ad occuparsi direttamente del proprio destino.

Sicché nel 2014 l’Arabia Saudita ha cominciato ad aumentare vertiginosamente la produzione di petrolio per determinare il crollo del prezzo del greggio e centrare tre distinti obiettivi di natura strategica: rendere poco remunerativo il rientro dei persiani sul mercato degli idrocarburi; rendere impraticabile l’estrazione dello shale oil statunitense; colpire la rendita di Mosca che si oppone ad un cambio di regime a Damasco (storico cliente dell’Iran).

A fronte di costi ingentissimi, la mossa saudita ha sortito solo parzialmente gli effetti sperati. Gli americani hanno confermato la politica di distensione nei confronti della Repubblica Islamica e la Russia, nonostante le difficoltà economiche, ha intensificato la difesa del siriano al-Assad. Unico risultato concreto: con il barile sceso a 35 dollari, almeno nel medio periodo gli iraniani non beneficeranno quanto speravano dalla fine delle sanzioni internazionali e per questo sembrano maggiormente propensi a sfidare gli Stati Uniti (come dimostrato dal recente lancio di missili contro la portaerei Usa Truman).

Ma la diminuzione del prezzo del petrolio sta avendo effetti assai nocivi sulla tenuta della stessa Arabia Saudita. Nel 2015 Riyad ha registrato un deficit di bilancio di circa 100 miliardi di dollari, il 15% del proprio pil, e quest’anno sarà costretta a tagli nella spesa pubblica e all’imposizione di nuove tasse. Uno sviluppo potenzialmente distruttivo per un regno che fa dell’opulenza la propria ragione di vita. Ed è qui che si inserisce l’esecuzione di al-Nimr, influente leader della provincia di Al-Sharqiyya. Ora che dispone di risorse finanziarie inferiori, Casa Saud ha voluto lanciare un monito alla locale popolazione sciita e all’Iran, invitando gli ayatollah a rispondere militarmente all’affronto. Così da costringere Obama a difendere lo storico alleato sunnita e abbandonare l’agognato concerto di potenze.

Impegnata in Siria e in Iraq, probabilmente Teheran si limiterà ad attuare una rappresaglia coperta. Allo stesso modo gli americani continueranno a mantenersi a distanza dalle beghe locali. Resta, tuttavia, la pericolosa vulnerabilità dell’Arabia Saudita che rischia di infiammare ulteriormente una regione già in preda a drammatici sconvolgimenti.

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