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L’accordo di Parigi è soprattutto una dichiarazione di intenti. Ora tocca ai singoli governi

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Di Dario Fabbri (Limes)

Benché si sia rivelato più ambizioso del previsto e coinvolga pressoché ogni nazione del globo, l’accordo raggiunto al summit sul clima di Parigi (Cop21) rappresenta poco più di una dichiarazione di intenti e affida la propria implementazione alla responsabilità dei singoli governi.

Al termine di due settimane di intense negoziazioni e sei anni dopo il fallimento del vertice di Copenaghen, sabato scorso i rappresentati di 195 nazioni hanno concordato di ridurre l’emissione di gas serra con l’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale intorno a 1,5°C (meno dei 2°C che gli scienziati individuano quale limite sostenibile), di verificare nel 2018 i progressi raggiunti e di convocare un summit analogo entro il 2020. Inoltre le nazioni più ricche garantiranno ai paesi in via di sviluppo 100 miliardi di dollari per aiutarli a ridurre l’inquinamento.

Mai così tanti delegati nazionali si erano incontrati al di fuori del Palazzo di vetro dell’Onu, né avevano mai promesso tanto in tema di ambiente. Peraltro, per la prima volta, ogni esecutivo dovrà rispettare il medesimo standard di trasparenza nel misurare e comunicare le proprie emissioni nocive. Nelle parole del segretario di Stato americano, John Kerry: «E’ una vittoria straordinaria per tutto il pianeta e per le future generazioni».

L’accordo solo parzialmente vincolante rappresenta un compromesso tra la volontà di Obama di evitare una possibile ratificazione dello stesso e la necessità di imporre alcuni traguardi minimi. Tuttavia proprio la natura ibrida e volutamente fumosa del testo ne potrebbero inficiare il valore. Non è previsto alcun sistema o istituzione che ne imponga il rispetto, né penalità concrete nel caso in cui i firmatari rinneghino gli impegni. Allo stesso modo non è stato stabilito quali paesi e in quale proporzione debbano materialmente versare i 100 miliardi previsti.

Risultato: il successo di Cop21 dipenderà esclusivamente dalla volontà delle nazioni coinvolte. Vero, l’assise parigina ha dimostrato che la sensibilità nei confronti dei temi ecologici e il timore per le conseguenze del surriscaldamento globale sono ormai alquanto diffusi, ma ora l’iniziativa torna nuovamente nelle mani dei singoli governi. In particolare questi dovranno ridurre le emissioni inquinanti più di quanto non abbiano annunciato soltanto due settimane fa nei loro impegni unilaterali (Intended Nationally Determined Contributions), che se restassero invariati causerebbero un aumento delle temperature globali di 2,7°C. Inoltre potrebbe bastare la violazione degli obblighi da parte di un solo Stato per innescare l’emulazione degli antagonisti, che temono di pagare il proprio afflato ambientalista in termini di crescita economica.

Il rispetto dell’accordo è dunque lasciato all’onestà delle cancellerie internazionali. Sarà l’equilibrio che queste riusciranno a raggiungere tra le istanze ecologiste e la produttività dei loro sistemi economici a determinare l’andamento degli eventi. Si spiegano così le austere dichiarazioni rilasciate al margine del summit ancora da John Kerry. «Se la comunità internazionale non riuscirà ad affrontare questa sfida – ha tuonato – saremo tutti responsabili di un fallimento morale di conseguenze storiche».

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