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I rischi di un intervento contro lo Stato Islamico nel caos della Libia

tvsvizzera

di Giorgio Cuscito (Limes)

Questo contenuto è stato pubblicato il 18 febbraio 2015

Senza un piano per riportare la stabilità politica nel paese africano, un attacco militare per contrastare milizie affiliate all’Is è controproducente. Soprattutto per la vicina Italia. Il pericolo è di alimentare la minaccia jihadista senza risolvere la crisi in corso da quattro anni.

In Libia, l'Egitto del presidente Abd al Fattah al-Sisi ha lanciato una serie di raid aerei per colpire le milizie affiliate allo Stato islamico (Is) responsabili del'uccisioneLink esterno di ventuno egiziani copti.

È la prima volta che il Cairo ammette il suo coinvolgimento in attacchi contro jihadisti sul territorio libico, anche se si ritiene che ciò sia già accaduto in passato. Al-Sisi ha chiesto al consiglio di sicurezza dell'Onu di adottare una risoluzione per un intervento internazionale nel paese africano. Il 16 febbraio, altri 35 egiziani sarebbero stati rapitiLink esterno.

Nel macabro video della decapitazione dei 21 copti, diffuso via Internet lunedì 15 febbraio, un terrorista a volto coperto rimarca l'avvicinamento dell'Is all'Europa dicendo "prima ci avete visto sulle colline della Siria, ora siamo a Sud di Roma, in Libia". Lo stesso giorno, l'ambasciata italiana a Tripoli ha sospesoLink esterno la propria attività a causa del peggioramento delle condizioni di sicurezza, assicurando comunque i servizi essenziali. Il personale è stato rimpatriato via mare. La radio dello Stato Islamico aveva definitoLink esterno il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni come "ministro degli Esteri dell'Italia crociata" dopo che questi aveva detto che Roma era pronta a combattere contro l'Is in Libia. Affermazioni cui hanno fatto eco quelle del ministro della Difesa Roberta PinottiLink esterno, poi smussate dal presidente del Consiglio Matteo Renzi, che ha detto che non è tempo per un intervento militare. Piuttosto è necessario un forte impegno diplomatico in ambito Onu per trovare una soluzione politica alla crisi libica. Una crisi di cui la presenza di milizie legate all'Is è tra le conseguenze più recenti.

La Libia nel caos

La Libia si trova a 350 chilometri a Sud delle coste italiane, è uno Stato prevalentemente desertico e grande quasi sei volte l'Italia. Da quando, nel 2011, il regime dittatoriale di Muammar Gheddafi - instaurato nel 1969 - è stato rovesciatoLink esterno, il paese è finito nel caos.

Oggi vi sono due governi distinti che si contendono il controllo del paese. Quello di Tobruk (a Est) guidato da Abdullah al-Thani, risultante dalle elezioni dello scorso giugnoLink esterno, e quello di Tripoli (a Ovest) guidato da Omar al-Hassi e risultante dalla precedente assemblea transitoria. Il primo è riconosciuto internazionalmente, anche se la Corte suprema libica ha dichiaratoLink esterno nulle le elezioni dello scorso giugno, delegittimandolo. Tobruk accusa Tripoli di essere controllata dalle forze jihadiste. Pur essendovi nella coalizione che sostiene al-Hassi delle componenti estremiste, queste non ne costituiscono il nucleo.

La presunta contrapposizione ideologica ha radicalizzato il confronto tra i due governi, che al momento non riescono a dialogare. A gennaio l'ultimo tentativo di mediazione da parte delle Nazioni Unite è fallitoLink esterno.

Tale vuoto politico ha agevolato l'emergere di varie milizieLink esterno in lotta per il controllo del territorio. Queste sono espressioni di interessi tribali e locali e includono formazioni jihadiste. Tra queste vi sono Ansar al ShariaLink esterno, che nel 2012 ha preso parte all'assalto al consolato Usa a Bengasi in cui fu uccisoLink esterno l'ambasciatore americano J. Christopher Stevens, e il Consiglio dei Giovani Islamici di Derna, uno dei gruppi jihadisti che hanno rivendicato il legame con l'Is.

Il governo di al-Thani ha appoggiato "l'Operazione dignità della Libia" lanciata dalla milizia dell'ex generale Khalifa HaftarLink esterno, che combatte i presunti jihadisti. Haftar è un personaggio dal passato poco trasparente. Gode probabilmente dell'appoggio dalla Cia, dell'Egitto, dell'Arabia Saudita, degli Emirati Arabi e di altre petromonarchie del Golfo. Combattendo i terroristi, l'ex generale vuole legittimare il suo ruolo e quello di Tobruk.

Lo sventolio delle bandiere dello Stato Islamico si è verificato con maggiore frequenza negli ultimi mesi. A gennaio, suoi militanti hanno rivendicatoLink esterno l'attentato all'Hotel Corinthia a Tripoli, in cui sono morte otto persone. Non è chiaro quanti siano i jihadisti dell'Is (forse qualche centinaiaLink esterno) e quanto stretto sia il rapporto tra questi e il nucleo attivo in Medio OrienteLink esterno. Alcuni di loro, tuttavia, avrebbero combattutoLink esterno in Siria e in Iraq, stabilendo un legame ideologico con il gruppo di al-Baghdadi e ricevendone finanziamenti e addestramento. Questi gruppi hanno affermato di appartenere al network dello Stato islamico anche per incutere timore, consolidare la loro posizione sul territorio e arruolare più facilmente nuove reclute. È il franchising del califfato.

I jihadisti dell'Is in Libia hanno affermatoLink esterno di aver preso il controllo della città di Nawfaliya. A Derna, al confine con l'Egitto, il numero dei suoi militanti sarebbe significativo. A Sirte, questi avrebbero occupato alcuni edifici chiave, incluse stazioni radio e televisive. È difficile stabilire con esattezza fino a che punto si estenda il loro controllo sul territorio, poiché il gruppo jihadista tende a esagerare i risultati raggiunti. Insomma, la Libia non è in mano allo Stato Islamico, ma ciò non significa che queste milizie non siano pericolose.

Le preoccupazioni dell'Italia

L'Italia è tra i paesi più preoccupati per gli sviluppi della crisi in Libia. C'è uno Stato fallito, rifugio di organizzazioni criminali e terroristiche, a poche centinaia di chilometri dalle sue coste. Questa situazione deve preoccupare al pari della presenza di cellule jihadiste o "lupi solitari" già presenti in Europa, come hanno evidenziato gli attentati a ParigiLink esterno e recentemente a CopenaghenLink esterno.

Il caos nel paese africano sta alimentando il flusso d'immigrati disposti a salpare illegalmente per approdare in Europa, con l'Italia come punto principale di approdo. Tutto ciò si traduce in una vera emergenza umanitaria. Secondo l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i RifugiatiLink esterno (Unhcr), nel 2014 218 mila persone hanno attraversato il Mar Mediterraneo e almeno 3.500 persone sono morte in queste acque. Pochi giorni fa l'ItaliaLink esterno ne ha accolte circa 2 mila. I jihadisti non si servono dei barconi per raggiungere le coste europee, piuttosto possono sfruttare il traffico di esseri umani per autofinanziarsi.

Infine vi è la questione energetica. La Libia è tra i principali fornitoriLink esterno di gas e greggio dell'Italia e la guerra civile ha segnato un calo delle suo esportazioni. Alcuni dei paesi più importantiLink esterno per il fabbisogno energetico dello Stivale rappresentano delle incognite strategiche; basti pensare alle Russia e alla guerra in Ucraina; altri sono nel caos, come l'Iraq e appunto la Libia; altri ancora sono instabili strutturalmente, come l'Algeria e la NigeriaLink esterno. Questa panoramica fornisce una ragione in più per non abbandonare Tripoli al suo destino.

Priorità alla soluzione politica

Un intervento militare in assenza di una soluzione politicaLink esterno che riporti la stabilità nel paese rischierebbe di non avere alcuna efficacia. Come in Iraq e Siria, è il vuoto di potere ad aver facilitato la proliferazione di gruppi terroristici e criminali in Libia. Intervenire appoggiando nei fatti una parte sola, il governo di Tobruk (come sta facendo l'Egitto), alimenterebbe la frattura con Tripoli e l'instabilità nel paese. Tutto ciò rinvigorirebbe la minaccia jihadista, legata non solo allo Stato islamico. Oltretutto l'Italia, per via del passato coloniale e del sostegno al regime di Gheddafi, qui non riscuote grande consenso. Queste motivazioni spiegano perché Renzi abbia escluso per ora un intervento italiano, in attesa che sulla crisi libica si pronunci l'Onu. Una prima risposta si dovrebbe avere nella riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza fissato per la sera del 18 febbraio. Insomma, un processo di conciliazione tra le due coalizioni e la creazione di un governo libico di unità nazionale paiono indispensabili per colmare il vuoto di potere e combattere più efficacemente i jihadisti dello Stato Islamico.

Per approfondire: La guerra in Libia è un regalo al califfoLink esterno

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