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Il voto agli stranieri e la prova dell’integrazione

Alcune persone passano di fronte a cartelli che pubblicizzano temi di voto.
Alle comunali del 15 marzo 2020 a Ginevra, il tasso di partecipazione degli svizzeri era del 40,2%, quello degli stranieri del 23,2%.

Il passaporto svizzero deve essere il presupposto per potersi recare alle urne? Per alcuni Cantoni e Comuni non è così, altri – come il Ticino – stanno attualmente dibattendo se sia giusto e se sarà questo il futuro del sistema democratico elvetico.

Partecipare alla vita politica del posto in cui si vive aiuta a sentirsi parte della comunità? Oppure, per ottenere il diritto di voto, è necessario essere già integrati? Domande che ricordano quella dell’uovo e della gallina ma che meritano, di tanto in tanto, di essere riaffrontate (come sta facendo il Parlamento cantonale in Ticino). Non foss’altro perché la Confederazione stessa incoraggia le persone straniere o di origine straniera all’integrazione (come figura all’articolo 53 della Legge federale degli stranieri e la loro integrazioneCollegamento esterno). Tant’è che il diritto di voto ed eleggibilità figura anche tra i 34 indicatori chiaveCollegamento esterno, utilizzati dall’Ufficio federale di statistica per illustrare i progressi effettuati in merito all’integrazione della popolazione con passato migratorio.

Come siamo messi quindi in Svizzera in tema di diritti politici a chi non possiede la cittadinanza? Il diritto di voto su temi nazionali non è riconosciuto a chi non è svizzero e maggiorenne, tantomeno i diritti a eleggere o essere eletti. Il sistema federale permette tuttavia a Cantoni e Comuni di conferire questa possibilità, in occasione di votazioni che li concernono, anche a chi non possiede il passaporto. A patto, si intende, che la maggioranza della popolazione del suddetto territorio si sia espressa in votazione a favore di questa concessione agli stranieri.  

A livello cantonale, Neuchâtel è stato il pioniere, seguito poi dal Giura, nell’accordare ai cittadini stranieri (a determinate condizioni) il diritto di votare e di eleggere. Nessun Cantone permette invece il diritto di eleggibilità a chi non è svizzero, eccezion fatta per Cantone di Friburgo, ma la possibilità è limitata all’elezione dei giudici.

A livello comunale, sono ancora una volta i Cantoni di Friburgo, Neuchâtel e Giura, con l’aggiunta di Vaud ad accordare ai cittadini non svizzeri il diritto di votare, di eleggere e di essere eletti. Le condizioni variano da un Cantone all’altro, ma nella maggior parte dei casi sono richiesti una determinata durata di soggiorno e/o anche un permesso di domicilio. Anche il Canton Ginevra concede il diritto di voto e di eleggere agli stranieri nelle votazioni ed elezioni comunali, ma non il diritto di eleggibilità.

Nei Cantoni di Basilea-Città, Grigioni e Appenzello Esterno, i Comuni hanno la facoltà di introdurre il diritto di voto, di eleggere e di eleggibilità a beneficio degli stranieri. Direzione nella quale si sta muovendo anche il Canton Zurigo. Soltanto una piccola parte di questi Comuni ha però deciso di mettere effettivamente in pratica questa modifica e le condizioni variano da un Comune all’altro.

Due Svizzere a confronto

I diritti politici a chi non possiede la cittadinanza, In Svizzera, sono una peculiarità dei Cantoni latini. Al di là del cosiddetto “fossato dei Rösti”, nella parte germanofona della Confederazione, anche quando i Cantoni hanno già legiferato su questa possibilità, i Comuni nicchiano nel concederla a tutti gli effetti. 

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La questione è tornata d’attualità in Ticino, dove gli stranieri rappresentano più del 28% degli abitanti totali e il diritto di voto, per loro, non è previsto. Un’iniziativa parlamentareCollegamento esterno che mira a cambiare queste regole è infatti in discussione al Parlamento cantonale. “Sono 60’880 (il 17% del totale della popolazione) gli stranieri domiciliati, ossia in possesso di permesso C, in Ticino da almeno 5 anni”. I deputati del Partito socialista che hanno promosso l’iniziativa propongono quindi di introdurre questo diritto a livello comunale, che “è quello più prossimo al cittadino e al territorio”. Permettere ai residenti stranieri di votare ed essere eletti nei consessi comunali “potrebbe estendere il principio di democrazia, avvicinando molte persone alle istituzioni e promuovendone l’integrazione”. Un principio simile a quello applicato dai Paesi dell’Unione europeaCollegamento esterno, che permettono ai cittadini comunitari di esprimersi a livello comunale anche se residenti in uno Stato che non è il proprio. Oppure a quello – applicato per ora solo a Glarona ma in discussione alla Camere federaliCollegamento esterno – di estendere il diritto di recarsi alle urne anche ai minorenni maggiori di 16 anni. Anche questo nell’ottica di incentivare ad interessarsi della società e in nome di una “democrazia moderna e all’avanguardia”, come si legge nell’iniziativa.

Ecco quindi che il quesito posto all’inizio di questo articolo ritorna: è l’essere integrati che dovrebbe dar diritto al voto o il voto che sedimenta l’integrazione? Ma non solo, se ne aggiunge uno nuovo: allargare la possibilità di voto – almeno nel livello istituzionale che più direttamente tocca i residenti, ossia quello comunale – anche a cittadini che, benché stranieri, si sono stabilizzati in Svizzera, fortifica la democrazia?

“Prima dei diritti politici c’è altro”

“È sicuramente da lì che dobbiamo cominciare, dai Comuni”. A sostenerlo è il delegato cantonale all’integrazione degli stranieri in Ticino Attilio Cometta che aggiunge: “In Svizzera abbiamo un sistema democratico che altri Paesi ci invidiano, bisogna quindi esserne consapevoli e farlo fruttare il più possibile”. La spinta verso l’integrazione non va però forzata, precisa ancora il rappresentante cantonale: “Concedere i diritti politici a livello comunale può essere un fattore che aiuta l’integrazione e arricchisce la democrazia, ma premere eccessivamente affinché questo avvenga può essere controproducente”.

In sostanza, per il delegato all’integrazione, “il tema è sensibile” ed è importante che i Comuni ci arrivino progressivamente: per una modifica di legge che vada verso il diritto di voto agli stranieri i “tempi devono essere maturi”. Intanto, ci sono tanti modi per favorire l’inserimento dei cittadini non svizzeri e includerli nella società in cui vivono: “Le possibilità per dare ascolto alle esigenze dei residenti sono varie: si possono fare incontri, svolgere sondaggi, eccetera. I Comuni hanno un largo margine di miglioramento sotto questo punto di vista. Molti altri passi possono essere fatti anche prima di concedere i diritti politici”, conclude Cometta.

Riguardo all’iniziativa parlamentare in discussione in Ticino, Attilio Cometta si mostra dubbioso in merito ad alcuni degli argomenti citati a difesa della causa. Come ad esempio il fatto che, estendere i diritti politici agli stranieri, sarebbe d’aiuto alle realtà locali in quanto – come scrivono i promotori – “è sempre più difficile trovare persone che si mettano a disposizione per i Consigli comunali”. Se la partecipazione al sistema democratico locale è debole, il problema è di fondo e non per forza verrà risolto dal diritto di voto a chi non ha la cittadinanza, precisa il delegato cantonale.

Il divario è fra le varie comunità di stranieri

Ma gli stranieri si avvalgono veramente del diritto di voto laddove esiste? L’Ufficio ginevrino di integrazione degli stranieri ha commissionato all’Università di Ginevra uno studio incentrato proprio su questo temaCollegamento esterno. L’analisi, pubblicata poche settimane fa, conferma che il tasso di partecipazione alle urne di alcune comunità straniere è molto basso e, inoltre, non migliora con il tempo. Ci sono tuttavia differenze significative in base alla nazionalità.

In occasione delle elezioni comunali del 15 marzo 2020, per esempio, il tasso di partecipazione dei cittadini svizzeri corrispose al 40,2%, mentre quello degli stranieri fu del 23,2%. All’interno di quest’ultimo gruppo, però, il 40,6% dei cittadini belgi e il 39,1% di quelli tedeschi andarono a votare. Un valore che crolla al 12,9% se si analizza invece la partecipazione dei portoghesi. Oltre a quest’importante scarto, lo studio rileva anche che due terzi dei portoghesi e la metà degli spagnoli residenti nel Canton Ginevra non hanno mai usufruito in passato del diritto di voto. Ne risulta che lo statuto di straniero preso singolarmente non spiega il divario tra la percentuale media di svizzeri che si sono recati alle urne (il 40,2%) e quella degli stranieri che lo hanno fatto (inferiore di 17 punti percentuali).

Tra differenze e affinità… elettive

I ricercatori, guidati dal professore di scienze politiche Pascal Sciarini, hanno quindi analizzato se i fattori che caratterizzano i confederati assenteisti – ovvero un livello di formazione meno elevato della media, redditi bassi e una giovane età – si riscontrano anche tra i cittadini stranieri che non votano. In questo caso, tra svizzeri e non svizzeri, figurano similitudini e differenze. Ad influire in maniera analoga sulla partecipazione al sistema democratico, indipendentemente dal passaporto, è per esempio l’appartenenza a quartieri popolari come quello ginevrino di Jonction (dove c’è meno interesse per la politica) oppure a quelli benestanti come Champel (dove l’affluenza alle urne è maggiore). Una certa differenza, rilevata in base ai tre fattori in questione, è però sorta in particolare tra svizzeri e portoghesi: se da una parte, i primi tendono con gli anni a sfruttare di più i propri diritti politici, i numeri delle elezioni del 2020 e quelle precedenti, rivelano che per i secondi invece non vale lo stesso e l’interesse resta scarso anche con l’avanzare dell’età.

La domanda che ci siamo posti all’inizio di questo articolo relativa alla consequenzialità tra integrazione e diritti politici, com’era presumibile, non ha trovato una risposta chiara. Anche tra i non svizzeri ci sono disparità sostanziali che fanno sì che ciò che incrementa l’affluenza alle urne per una comunità, non abbia lo stesso effetto per un altro gruppo nazionale. In base ai fattori considerati in seno allo studio, così come alle specificità che possono interporsi tra il livello di integrazione e l’interesse per la politica di una comunità, nella loro conclusione, i ricercatori ginevrini suggeriscono di non indirizzare le politiche di integrazione e di coinvolgimento alla cosa pubblica unicamente verso i gruppi di stranieri in cui questi risultano deboli. Ma di intraprendere iniziative a lungo termine che si rivolgano a tutta la popolazione, indipendentemente dal passaporto.

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