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Lotta alla mafia: l’approccio investigativo fa la differenza

Rosa Maria Cappa

La comunità internazionale ha compreso i danni derivanti dalle infiltrazioni mafiose e 190 Stati, fra i quali la Svizzera, hanno sottoscritto/ratificato la Convenzione ONU di Palermo del 2000 contro il crimine organizzato transnazionale. Da allora quegli Stati hanno adottato misure sempre più imponenti e chirurgiche per combattere le mafie. Tuttavia, sono necessari ulteriori passi in avanti sia sul piano legislativo che su quello delle indagini.

L’Italia si è dotata di strumenti normativi antimafia via via più performanti fino a varare nel 2011 un codice antimafia (D. Lgs. N. 159/2011), che prevede delle misure di prevenzione personali, adottabili dall’autorità giudiziaria (es. sorveglianza speciale) ma anche autonomamente dall’autorità di pubblica sicurezza (es. foglio di via obbligatorio) e delle misure di prevenzione patrimoniali (es. sequestro, confisca, amministrazione statale dei beni e delle imprese mafiose) e la riconversione dei beni confiscati per fini di pubblica utilità. La particolarità di tali misure è che possono essere applicate sulla base della semplice pericolosità sociale di una persona, a prescindere dalla commissione di un reato; dunque, anche indipendentemente dall’apertura di un’indagine penale. Per l’applicazione delle misure patrimoniali è necessario, inoltre, che vi sia una sproporzione tra il valore di un bene e i redditi dichiarati o l’attività economica svolta dal soggetto che ne dispone.

In Svizzera, i tentativi di modifica dello scarno art. 72 Codice penale, che si limita a prevedere la confisca dei valori di cui l’organizzazione criminale ha facoltà di disporre e la presunzione che i beni dei mafiosi siano a disposizione dell’organizzazione criminale, sono naufragati in Parlamento in nome di una loro ritenuta non necessarietà o non opportunità e “nell’interesse della nostra piazza finanziaria” (parere del Consiglio federale 19.11.2014 sulla mozione 14.3846Collegamento esterno).

Eppure in Svizzera la criminalità organizzata, specie quella italiana, è una presenza silenziosa ma radicata. Ne sono la prova i tanti arresti eseguiti negli ultimi decenni su richiesta delle autorità italiane antimafia: gli ultimi due eseguiti il 15 giugno 2021 in Argovia e in Ticino su richiesta della Direzione distrettuale antimafia (DDA) di Catanzaro nell’ambito dell’operazione contro le cosche Anello-Fruci. Non a caso, l’Ufficio federale di polizia da anni considera la ‘ndrangheta una minaccia specifica per la società svizzera (cfr. Rapporto Fedpol 2014Collegamento esterno).

Altri sviluppi

Il sistema svizzero antimafia risulta inadeguato anche sotto il profilo delle scelte di politica criminale concrete. È pacifico che per arginare il fenomeno mafioso è essenziale monitorare il territorio, il che presuppone la presenza dell’autorità preposta nei luoghi in cui la mafia è tradizionalmente operativa (secondo l’Ufficio federale di polizia, si tratta dei cantoni di frontiera con l’Italia e con la Germania). E invece la divisione crimine organizzato del Ministero pubblico della Confederazione mantiene da decenni la sua sede a Berna.

Ma ad essere inappropriato è soprattutto l’approccio investigativo nella lotta alla mafia.

Dall’epoca di Giovanni Falcone, la Svizzera ha sempre eseguito le rogatorie italiane, raramente portando a termine inchieste proprie. Chi conosce il fenomeno mafioso sa che i mafiosi non sono lupi solitari, emigrano in gruppi di famiglie, preferiscono stanziarsi in piccoli villaggi, si mimetizzano nel tessuto sociale grazie a lavori di basso profilo, intrattengono relazioni strette con le persone con cui condividono tradizioni e costumi e partecipano alle associazioni di emigrati. Nel caso, ad esempio, dell’arresto di nove mafiosi della locale di Frauenfeld nel 2014, ripresi dalla Polizia giudiziaria federale a fare riti di iniziazione ‘ndranghetisti, ci si è limitati a trasmettere il video alla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria e ad estradare gli arrestati. Non si hanno invece notizie di indagini in Svizzera su quella locale nonostante essa contasse almeno 18 affiliati e fosse operativa sul nostro territorio da oltre 40 anni. Il punto è che per ogni mafioso estradato in Italia, ne restano quattro o cinque in Svizzera a continuarne le attività illecite. Il Procuratore antimafia di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, aveva all’epoca dichiarato che, oltre alla locale di Frauenfeld, era stata tracciata in Svizzera la presenza di almeno altre venti cellule ‘ndranghetiste.

“L’idea che sia sufficiente arrestare, estradare ed eseguire le rogatorie delle DDA italiane per arginare l’attività mafiosa in Svizzera costituisce un approccio inadatto alla sfida”.

L’idea che sia sufficiente arrestare, estradare ed eseguire le rogatorie delle DDA italiane per arginare l’attività mafiosa in Svizzera costituisce un approccio inadatto alla sfida. È necessario cambiare paradigma: dare vita ad indagini autonome in Svizzera e, se del caso, scambiare informazioni con le autorità italiane. Così pure è necessario invertire la rotta sul campo istruttorio e processuale nel senso che non ci si può rassegnare ad una sorta di dipendenza probatoria dalle indagini svolte in Italia. Il fatto che i mafiosi si trovano in Svizzera significa che operano (e quindi delinquono) sul nostro territorio ed è qui che bisogna essere capaci di raccogliere le prove per cercare di ottenerne la condanna.

L’esperienza italiana insegna che per costruire un’indagine per mafia occorre partire dall’analisi dei dati e dal monitoraggio dei settori in cui essa si sviluppa: in Svizzera sono principalmente l’edilizia, la ristorazione, i trasporti privati e, aggiunge chi scrive, la vendita/riparazione di autoveicoli. A tal fine, essenziale è l’esame dei dati delle fonti pubbliche che possono contenere tracce dell’operatività delle consorterie mafiose. Incrociando ad esempio le informazioni provenienti di uffici quali l’Ufficio del controllo abitanti, il Registro di commercio, l’Ufficio del registro fondiario, l’Ufficio esecuzione e fallimenti e gli Uffici di tassazione con la presenza di personaggi legati alla mafia e monitorando le loro attività, le relazioni personali e il loro tenore di vita, si possono ricavare delle informazioni essenziali per dar vita ad indagini di mafia capaci di approdare davanti ai Tribunali.

Allo stesso modo, è fondamentale che l’attività di controllo della polizia si indirizzi verso le attività e i reati “spia” dell’operatività mafiosa, quali le irregolarità nelle procedure di assegnazione delle commesse pubbliche, i reati fallimentari, le violazioni delle norme sulla protezione dei lavoratori e sulla previdenza sociale. Da monitorare è pure il metodo di finanziamento delle imprese, nella misura in cui l’imprenditore che non ha i requisiti per ottenere dei prestiti dalle banche è facile preda di chi presta denaro senza chiedere alcuna garanzia ma con tassi d’interessi elevatissimi. Il passaggio di livello investigativo consiste poi nel riuscire a collegare questi reati alla presenza di un’organizzazione criminale mafiosa, mettendo una certa pervicacia nel sorvegliare le persone sospettate di appartenere alla stessa.

Infine, è necessaria in Svizzera una formazione costante alla legalità attraverso un’opera di informazione e di sensibilizzazione non solo della popolazione, ma delle stesse istituzioni, le quali – in ossequio ad un’attitudine comunicativa politically correct – a volte minimizzano l’entità del fenomeno, contribuendo così inconsapevolmente alla sua espansione. Si deve far comprendere che la mafia in Svizzera non è più fatta semplicemente di transazioni bancarie e di transiti di stupefacenti e armi, ma di attività commerciali e imprenditoriali e di investimenti concreti sul territorio che, insieme al denaro della mafia importano anche il metodo mafioso, quel metodo che – a medio termine – può erodere l’economia e i valori anche di una comunità sicura come quella svizzera.

Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente quelle dell’autrice/autore, e non riflettono necessariamente le opinioni di tvsvizzera.it.

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