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Come l’italianità ha plasmato la Svizzera

Made in Switzerland ma con grandi sfumature tricolore

operai su un cantiere
Con il forte sviluppo dell'industria orologiera nella seconda metà del XIX secolo, La Chaux-de-Fonds ha fatto capo alla manodopera italiana per la sua espansione urbana. Poi, tra gli anni Cinquanta e Sessanta gli italiani e soprattutto le italiane sono di nuovo tornati in massa nella città del cantone Neuchâtel. Ma questa volta per partecipare anche al boom degli orologi rossocrociati. tvsvizzera

Nel XX secolo, l'economia svizzera ha potuto crescere in gran parte grazie alla manodopera straniera e in particolare italiana. Ad approfittare del lavoro degli italiani e soprattutto delle italiane è stato anche il settore emblematico dell'industria elvetica, l'orologeria. Ne abbiamo discusso con Francesco Garufo, direttore del Museo di Storia di La Chaux-de-Fonds, città operaia per eccellenza e culla degli orologi Made in Switzerland.

Francesco Garufo ha cominciato la sua carriera con l’esperienza empirica. Figlio di operai, papà siciliano e mamma spagnola, da giovane ha lavorato come imbianchino sui cantieri, finché non si è appassionato alla storia e si è dedicato alla ricerca sull’immigrazione italiana in Svizzera.

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Come l’italianità ha plasmato la Svizzera

Questo contenuto è stato pubblicato al Gli italiani sono spesso presentati come un modello di integrazione riuscita. Ma come quasi sempre accade, il movimento non è stato a senso unico. Anzi.

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Un’immigrazione che conosce un primo apogeo tra il 1880 e la Prima guerra mondiale, anni in cui la Svizzera vive un momento di grande sviluppo. Ci sono i grandi cantieri delle opere infrastrutturali (rete stradale e ferroviaria, canalizzazioni), ed anche le città si sviluppano molto velocemente, ciò che necessita manodopera per la costruzione di fabbriche, palazzi e case con i vari lavori di finitura necessari.

Soprattutto dal nord Italia vengono molti italiani a lavorare nella Svizzera tedesca e francese, durante le belle stagioni, quindi come stagionali, tornando a casa l’inverno. Questi – per la maggior parte – uomini portano non soltanto la forza lavoro che manca al nord delle Alpi ma anche i loro talenti e le loro competenze.

I rosoni per esempio sono elementi decorativi in gesso che si ritrovano in molte case e che furono introdotti dagli immigrati del nord Italia e dal Ticino alla fine dell’800. Quindi, spiega il direttore del Museo di Storia di La Chaux-de-FondsCollegamento esterno, gli immigrati italiani nell’edilizia non hanno semplicemente sostituito gli svizzeri che non volevano più fare certi lavori manuali, ma hanno portato con loro le proprie competenze professionali.

Nel periodo tra i due conflitti mondiali, tanti lavoratori ripartono e l’immigrazione diminuisce. Quando però finisce la Seconda guerra mondiale la Svizzera, che è uno dei pochi paesi in Europa con un’infrastruttura intatta, può riprendere subito la produzione e fa capo in modo massiccio alla manodopera straniera. Soprattutto dopo l’accordo d’immigrazione tra Italia e Svizzera del 1948 arrivano molti lavoratori e l’immigrazione continua fino al 1970, quando – in seguito alla crisi petrolifera – l’economia mondiale e svizzera subisce una battuta d’arresto.

In questa seconda ondata migratoria del dopoguerra gli Italiani continuano in parte a lavorare nell’edilizia ed in parte nelle fabbriche. Una delle produzioni emblematiche della Svizzera è la manifattura orologiera, tema caro a Garufo, che per la sua ricerca storica ha analizzato l’impiego della manodopera immigrata nel settore orologiero nel periodo 1930-1980, pubblicandone i risultati nel libro L’emploi du temps.

Donne sì, uomini no

Nel 1950 la metà degli orologi venduti al mondo erano svizzeri, racconta Garufo. Ciò rappresentava – e in parte rappresenta tuttora – una grossa fetta delle esportazioni del paese. L’orologeria è anche un settore speciale per quanto riguarda l’immigrazione. Nonostante alcuni orologi fossero stati inventati proprio da immigrati, come per esempio l’orologio Roskopf, primo orologio per tutti, creato dal tedesco Georges-Frédéric Roskopf, il settore vuole mantenere il segreto sulla fabbricazione dei suoi orologi e con l’aiuto dello Stato si chiude in un cartello che – tra le altre cose – limita la manodopera straniera.

Il timore era che gli operai stranieri imparassero i sistemi di fabbricazione e li impiantassero all’estero, soprattutto nel nord Italia, ci spiega Garufo. In primo momento, quindi, fu vietato agli uomini italiani di lavorare nelle fabbriche di orologeria. Cosa curiosa da una prospettiva odierna, il settore restò però aperto alle donne, che tuttavia erano ammesse solo in ruoli poco qualificati e spesso molto duri, come sulle macchine automatizzate per la produzione di pezzi, con compiti molto stancanti per gli occhi ed in un ambiente spesso rumoroso e malsano.

Negli anni Sessanta il settore fu poi aperto anche agli uomini, anche se presto la necessità di manodopera si ridusse con l’automatizzazione delle macchine e la crisi dell’orologeria negli anni 70.

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