Il padiglione coreano a Expo punta sull’effetto del tutto bianco che esprime un certo minimalismo ma gioca forte, anzi fortissimo, coi contrasti. Gli avveniristici fiori ombrello per proteggere dal sole e il masso con le incisioni rupestri sono il primo confronto che si percepisce già all’esterno.
L’involuzione dell’uomo
La scalinata che punta a un disco solare, ha da un lato i nomi di molte pietanze, e il pubblico è invitato a scrivere le proprie. La parete opposta, invece, illustra il dilemma dell’evoluzione umana, ripresa anche all’interno. Si assiste così alla trasformazione tra un magro uomo cacciatore e un grasso mangiatore di salsicce. Il paradosso, fotografia della civiltà contemporanea, è ripreso sulla parete composta da sfere dove i corpi sono mostrati in movimento. È un contrasto pesante, invece, quello dello spazio successivo, dove un albero imbrattato dal catrame sovrasta la sagoma di un bambino affamato. Nel grande locale che segue, i progettisti coreani hanno voluto impressionare con una sinfonia culinaria industriale abbinando musiche e robot ad immagini alimentari. Chapeau alla tecnica, un po’ meno ai contenuti. Un grande vaso per trasportare cibo e un campo stimolano con effetti luminosi l’idea del raccolto e della conservazione.
Le conclusioni mancanti
Il percorso si chiude con la grande scala che riporta al piano terra attraversando una curiosa aiuola cilindrica. Il negozio di souvenir – inutile ai fini di Expo – ristorante, street food e spazi verdi costituiscono il livello inferiore, vivibile come un grande spazio aperto. Passano purtroppo inosservati i completamenti del piano superiore che si ammirano all’uscita e che solo un occhio attento percepisce come la continuazione delle installazioni. Le sfere narranti infatti provocano una cascata di confezioni vuote mentre l’albero del bambino affamato affonda le radici nel nulla. Così defilate, le conclusioni di un padiglione tanto interessante rischiano di vanificarsi.
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