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A 30 anni dall’assedio di Sarajevo la storia si ripete

L'assedio russo a Mariupol, città martire e simbolo sinistro del conflitto armato in Ucraina, ha fatto tornare alla mente di molti il lungo assedio di Sarajevo, cominciato trent'anni fa e che segnò la guerra di Bosnia.

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Dal 6 aprile 1992 fino al termine della guerra, che si concluse con gli accordi di Dayton nel novembre 1995, nella Sarajevo assediata dai serbo-bosniaci si contarono oltre 11’500 morti, fra i quali 1601 bambini, e 50 mila feriti. Il bilancio complessivo della guerra di Bosnia, durata tre anni e mezzo, fu di 100 mila morti e 2 milioni di profughi.

“Passerà presto”, pensava allora come oggi la gente,” il mondo non può permettere uno scontro fratricida e una carneficina nel bel mezzo del vecchio continente”. E invece su Sarajevo dalle colline circostanti cominciano a piovere le granate, centinaia su tutta la città, una media di 300 al giorno prese da quell’immenso arsenale accantonato in quasi 50 anni dalla Jugoslavia di Tito.

A dirigere il ritmo dell’artiglieria pesante erano Radovan Karadzic, lo psichiatra diventato il leader politico dei serbo-bosniaci, e il comandante militare, il generale Ratko Mladic. Il loro quartier generale fu stabilito a Pale, un paesino di montagna a pochi chilometri a est di Sarajevo.

E in poche settimane non ci fu più un posto sicuro in nessun angolo della città, notte e giorno piovevano bombe e granate, tagliati gas, acqua e luce poiché i “rubinetti” erano in territorio sotto controllo serbo.

Con il proseguire incessante dei bombardamenti, apparvero cartelli con la scritta a mano “Pazi snajper”, attenti ai cecchini, che erano precisi e micidiali e che colpivano spietatamente uomini, donne, bambini e anziani intenti ad attraversare incroci stradali o a rientrare alle proprie case. Sulla strada che va dall’aeroporto al centro della città le poche auto in giro sfrecciavano ad alta velocità per evitare i proiettili dei cecchini, e anche i funerali si facevano di notte, perché di giorno era troppo pericoloso.

Il 25 agosto 1992 dalle colline un diluvio di bombe al fosforo colpì la Biblioteca nazionale, un palazzo moresco sulla riva del fiume Miljacka, mandando in fumo un milione di libri e di manoscritti, la memoria di Sarajevo e della Bosnia intera. Ma i libri, unitamente a scarpe e mobilio, si bruciavano anche nelle case all’arrivo della stagione fredda per cucinare e tentare di scaldarsi.

Una certa quantità di cibo e farmaci arrivò in città grazie a un gigantesco ponte aereo organizzato dall’Onu, mentre i soldati bosniaci scavarono un tunnel segreto di 760 metri che correva sotto la pista dell’aeroporto, al fine di far passare cibo, armi e militari.

Molto scarso fu il contributo dato dal contingente dell’Onu (Unprofor), per Sarajevo e per tutta la Bosnia, costituito da migliaia di soldati con un compito di “interposizione”, e con una regola di ingaggio che vietava loro di sparare per proteggere la popolazione: a centinaia furono uccisi, molti altri derubati, rapiti e umiliati. Ratko Mladic e Radovan Karadzic, primi responsabili oltre che dell’assedio di Sarajevo anche del massacro di Srebrenica – ottomila civili musulmani uccisi nel luglio 1995 – sono stati condannati entrambi all’ergastolo dal Tribunale dell’Aia, dinanzi al quale alcuni propongono ora di portare anche Vladimir Putin per i crimini della Russia in Ucraina.

Dopo trent’anni la storia d’Europa sembra ripetersi, con il dramma di Sarajevo e della Bosnia rimasto solo un monito inascoltato.
 

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