La televisione svizzera per l’Italia

Quel che conta è l’odio

Due donne Rom e una bambina tra le baracche
Vecchie roulotte, baracche, container e piccole capanne improvvisate. Le case di Campo River a Roma. AFP

La situazione dei rom in Italia è ritornata alla ribalta dopo le dichiarazioni di Matteo Salvini sul loro censimento e dopo lo sgombero di alcuni campi. Un destino appena toccato anche a Campo River, a Roma. L'ha visitato di recente il corrispondente del Tages-Anzeiger, Oliver Meiler. Vi proponiamo qui la traduzione del suo reportage apparso il 10 luglio sul quotidiano elvetico.


Link: l’articolo originale del Tages-Anzeiger in tedescoCollegamento esterno

Qui è dove finisce il mondo. Via Tenuta Piccirilli, a nord di Roma, è un vicolo cieco. L’affiancano fabbriche silenziose, un cimitero di automobili e una lunga fila di bidoni bruciati. Poi c’è il Tevere, marrone e sporco. Ogni tanto i rom e i sinti pescano in questo brodo, ma il fiume non concede molto. Loro vivono qui, alla fine della strada, in vecchie roulotte, baracche, container e piccole capanne improvvisate. 

Oliver Meiler
Oliver Meiler è il corrispondente da Roma del quotidiano svizzero Tages-Anzeiger e di quello tedesco Süddeutsche Zeitung. Süddeutsche Zeitung


 Sopra l’entrata si trova un grande pannello con la scritta “River Village”. Così si chiamava questo luogo una volta, quando era un resort per le vacanze, un campeggio, molto tempo fa. Ora assomiglia al set abbandonato di un vecchio film western. E tutt’intorno, sparsi a casaccio, container e baracche. Qui sono parcheggiate 420 persone che nessun altro luogo accoglie, ma che dovranno presto andarsene anche dal campo sul fiume, “Campo River”, come lo chiamano i giornali.

È un umido sabato d’estate, 32 gradi. “Siediti con noi qui all’ombra”, dice Luciana. Ha 30 anni e ha voglia di dire la sua, ma non rivela il suo nome completo, non vuole leggerlo sui giornali. Perché no? Scuote la testa. 

La giovane romena indossa un lungo vestito verde e siede davanti alla sua roulotte, le gambe incrociate. Sacchetti di plastica vuoti e pezzi di carta sono sollevati dal vento, c’è odore di olio fritto, mischiato a quello di marciume che sale dal Tevere. Da una roulotte risuona della musica pop balcanica con i bassi alle stelle, ma nessuno sembra preoccuparsene. 

Un piccolo Trump

“Viene qui per Salvini, non è vero?”, dice Luciana. “Ah, quello è un piccolo Trump. Davvero, vuole essere come Trump”. Il suo italiano è quasi perfetto, solo qualche finale di parola ogni tanto non combacia con altri. È qui da molto tempo, ci dice. La metà della vita, quindici anni, sempre nel “River”. I suoi tre figli sono nati a Roma. Il primogenito adesso ha 14 anni, ed è seduto di fianco alla madre. Ha l’aria annoiata e non dice una parola. “Italia è casa”, dice Luciana. Quando va in Romania a trovare sua madre, a Calarasi, ha nostalgia del “River”.

Sono braci costantemente fumanti sulle quali Salvini soffia con vigore, per farle bruciare di nuovo. 

Alcuni container nella parte posteriore del campo sono già stati distrutti dal comune di Roma. Sono arrivati con una ruspa, come piace a Matteo Salvini. Sono rimasti solo vecchi forni e frigoriferi, sparpagliati qua e là. Tra qualche giorno però tutto il campo dovrà scomparire. 

“È una tragedia”, dice Luciana. Salvini vuole sgomberare tutti i campi rom e sinti a Roma e in Italia. Quelli ufficiali e quelli sorti abusivamente. Bulldozer e ruspe per appiattire e radere al suolo. Questo è il suo grande obiettivo. Lo ripete da anni ad ogni occasione. Il potere di farlo è però del comune. 

Salvini intende anche contare i rom e i sinti in Italia, sono circa 140’000. Alla televisione il vicepremier ha parlato di “una ricognizione in Italia per vedere chi, come, quanti. Rifacendo quello che all’epoca si chiamava censimento”. A chiamarlo così però “apriti cielo”, ha detto. “Allora chiamiamola anagrafe, una situazione, una fotografia”. 

Gli è stato fatto notare che un tale conteggio su base etnica è incostituzionale e ricorda i tempi bui del secolo scorso quando i nazisti hanno censito, perseguitato e mandato alle camere a gas i rom e i sinti. Come gli ebrei. 

Ma le critiche non l’hanno scalfito, la provocazione fa parte del suo programma. Salvini vorrebbe tutti i rom fuori dal paese. “I rom italiani, purtroppo, li dobbiamo tenere”, ha detto.

“Io sono europea”, dice Luciana. Lei appartiene all’Europa. “Dove vuole portarmi, quindi?” Fino alla nascita dei suoi bambini più piccoli ha lavorato come collaboratrice domestica presso una famiglia italiana e faceva le pulizie in una chiesa in Via Cassia. “Tutt’e due con un contratto”, dice. Per lei è importante. Tutto legale. Da quando sono venuti al mondo i piccoli, a lavorare è solo suo marito. “È impiegato a ingaggio nei cantieri, fa lavori che gli italiani non vogliono fare”, dice Luciana. Per 20 euro al giorno e un panino. “Ma non ci lamentiamo.”  

Circa la metà dei rom e sinti in Italia sono cittadini italiani, alcuni lo sono già da molte generazioni. Dell’altra metà, circa l’80% proviene da paesi dell’Unione Europea. E il resto? Sono persone fuggite dalla ex Jugoslavia, soprattutto dall’odierna Bosnia, dalla Macedonia e dal Montenegro, quando la federazione si sfaldò. Molti di loro sono quindi apolidi e non possono essere rimpatriati, come potrebbero?

Se si sottraessero dai 140’000 rom in Italia quelli che vi si trovano legalmente, rimarrebbe solo qualche centinaio che Salvini potrebbe effettivamente espellere. 200, forse 300 persone.

“I suoi attacchi sono pura propaganda”, dice Carlo Stasolla, presidente dell’associazione Articolo 21 luglio. Da trent’anni si batte per i rom, registra le discriminazioni, tenta di sfatare i pregiudizi e le incomprensioni della gente. Salvini fa di tutto per incitare l’odio nei confronti della minoranza, dice. 

Nessun paese è intollerante nei confronti di rom e sinti quanto l’Italia, dice uno studio internazionale. Più dell’80% degli italiani dice di avere dei problemi con loro, un valore significativamente più elevato rispetto ad altri paesi europei dove vivono il doppio o il triplo dei rom.    

Salvini soffia sul fuoco

La ragione di tutto questo, dice Stasolla, è da cercare nei drammatici fallimenti della politica italiana negli anni ’90. Allora, dopo la caduta del muro di Berlino e la disgregazione della Jugoslavia, decine di migliaia di rom e sinti sono arrivati in Italia. Gli italiani li hanno presi per nomadi, anche se la maggior parte di loro non lo erano più da molto tempo, e li hanno messi negli accampamenti. Una sistemazione temporanea, quindi.

Anche i governi di sinistra hanno pensato che li avrebbero protetti risparmiando loro una vita in case e appartamenti. “E così sono nati i ghetti alla periferia delle città. E naturalmente anche la criminalità è cresciuta”, spiega Stasolla. E con essa il disprezzo generalizzato nei confronti di tutti i rom e sinti, considerati ladri e mendicanti, trattati alla stregua di paria. È un circolo vizioso. Sono braci costantemente fumanti sulle quali Salvini soffia con vigore, per farle bruciare di nuovo. 

Il “River” era uno di questi campi, istituito e finanziato dallo Stato. Oltre a quelli ufficiali, sono nati anche dei campi spontanei, senza acqua ed elettricità. Li si trova sotto ai cavalcavia, agli svincoli autostradali, lungo le ferrovie. Sono chiamati “piccole Calcutta” e nessun’altra città in Italia ne ha più di Roma. 

Una nuova speranza è arrivata con Virginia Raggi, la sindaca dei Cinque Stelle. Quando due anni fa la giovane avvocata arrivò al potere, promise ai rom una vita migliore, integrata nella società, fuori dai ghetti. La città si è offerta di aiutare i rom, con sussidi mensili di 800 euro a famiglia. Dovevano solo trovare un alloggio, con un contratto d’affitto.

“È come una guerra”

“È stata una barzelletta”, dice una zia di Luciana, che finora era stata ad ascoltare in silenzio. “Chi darebbe una casa a noi zingari?”. Il limite di tempo è passato lo scorso autunno e solo quattro famiglie hanno trovato qualcosa. Il progetto per “River”, caso modello della Raggi, è stato un flop e la città si è ritirata. Da allora molti vivono senza elettricità. E l’acqua? È consegnata ogni mattina alle 9:30. Il camion cisterna si ferma fuori dall’entrata del campo. “È come una guerra”, dice un uomo chiamato Bacio. È a sulla cinquantina, la barba grigia, porta una camicia senza maniche. Anche lui è rumeno, di Craiova. Nella battaglia per l’acqua ognuno pensa a sé stesso, ci dice incrociando le braccia.

Bacio, dal nome forse si capisce, è l’angelo custode del campo. Dei bambini gli si avvicinano. “È successo qualcosa, Bacio?”, chiede una ragazzina. “No, no”, risponde lui, “stiamo solo parlando del River. Andate!”    

Qui si sta uniti, molti vengono dallo stesso angolo di Romania. Sotto un pino quattro uomini giocano a carte, o perlomeno pretendono di farlo. Naturalmente ascoltano tutto quello che Bacio racconta. Uno a un certo punto grida: “Matteo Salvini? Quello è come Heil Hitler.”

Bacio vive a Roma da 10 anni. Costruisce palchi per concerti rock. Quando non ha nessun incarico, lo si trova facilmente per le strade a cercare lavoro come bracciante a giornata. 

Gli italiani non sono razzisti, spiega Bacio, non più che in altri posti in ogni caso. E poi dice qualcosa che non ci si aspetterebbe. L’idea di Salvini di contare i rom, dice, alla fine non è poi così brutta. Così almeno si saprebbe chi vive dove. Questo proteggerebbe anche loro, i rom onesti. “Immagina che un lontano parente, che ha fatto cose cattive, arrivi dalla Francia per nascondersi. Se ci fosse un registro si potrebbe sapere che non ha niente a che fare con noi, che non vive nel River”.  

Il problema è che con i rom si fa di tutta l’erba un fascio. È probabile che Bacio immagini qualcosa di diverso da Salvini riguardo al registro. 

E adesso, dove andranno quando il campo verrà sgomberato? Che ne sarà dei bambini quando si troveranno in un posto dove lo scuolabus non arriva, come qui?  Alcuni hanno accettato la proposta della città e si trasferiranno in case popolari. Ma molti non vogliono perché temono che la separazione danneggerebbe la loro coesione. Che è tutta la loro forza. 

Traduzione dal tedesco, Zeno Zoccatelli

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