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Lo schiaffo di papa Francesco: sotto l’albero di Natale, solo carbone per i prelati della Curia

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di Aldo Sofia

Sotto l’albero di Natale, niente. Meglio: carbone a palate. Il carbone che molti genitori minacciano di “regalare” nelle feste di fine anno ai figli indisciplinati. In questo caso gli indisciplinati sono nientemeno che i prelati della Curia romana. E il genitore – soavemente implacabile – si chiama Francesco, papa Francesco. Si dice che da un millennio nessuno, dentro la Chiesa cattolica, aveva pronunciato parole di così forte rimprovero alle gerarchie d’Oltre Tevere: dai tempi di San Bernardo, che pontefice non era, e che nell’XI secolo denunciò i vizi ecclesiastici, invocando una rivoluzione “in capite e in corpore”. Insomma, una riforma totale.

Capita l’antifona, i volti di cardinali e vescovi riuniti per gli auguri natalizi di Bergoglio sono diventati maschere impassibili. E vitrei gli sguardi. Invece di regali, il papa argentino ha distribuito formidabili tirate d’orecchie. Mazzolati come mai era accaduto “dentro le Mura”, con la denuncia di quelle quindici malattie spirituali, elencate con puntiglio, che, denuncia il successore di Pietro, affliggono gli uomini che governano, o anche solo rappresentano, “santa madre Chiesa”.

Invidia, pigrizia mentale, servilismo, smania di potere, narcisismo, presunzione di essere indispensabili, impietrimento, e via elencando. Fino a quella patologia “dell’Alzheimer spirituale” che, fra tutte le accuse, è suonata come la più dolorosamente severa. Francesco ci ha messo anche i “traslochi” sontuosi: e i presenti hanno subito pensato a un assente, quel cardinal Tarcisio Bertone, potentissimo ai tempi del pontificato ratzingeriano, privato di ogni titolo (di recente anche quello di Camerlengo), e che nonostante la “disgrazia” e le invocazioni di Bergolio per una Chiesa dei poveri, si è trasferito in un superattico vaticano, con vista sulle due umili stanze di Santa Marta in cui Francesco si è installato rinunciando agli spazi e agli sfarzi del Palazzo Apostolico.

Questo non è certo un pontefice in cerca di popolarità fra i fedeli. Ne ha, e ne ha molta. Addirittura troppa, secondo la ridotta schiera dei suoi critici, che gli rimproverano innanzitutto una serie di gesti e di parole che minaccerebbero di “desacralizzare”, “banalizzare”, quasi “laicizzare” la figura e il ruolo del successore di Pietro.

Perché, allora, tanta severità (ma il monito è rivolto a tutti i potenti)? Secondo non pochi vaticanisti, vi è certo un convincimento personale, ma anche una necessità più “politica”: a 21 mesi dalla sua elezione al sacro soglio, il papa arrivato dalla “fine del mondo”, come si definì nel prima apparizione in Piazza San Pietro, sente di non aver ancora vinto la sua battaglia per la riforma della Curia. Dietro un intervento forte, quasi brutale, si potrebbe dunque celare anche un sentimento di debolezza, di incompiutezza, di una resistenza interna difficile da scalfire.

C’è una parola che questo pontefice ama ripetere. La parola “parresia”. Significa schiettezza, franchezza. Per estensione, può anche significare “eccessivo”, o “sopra le righe”. E chissà quant’altra “parresia” gli servirà per mettere in riga quelli che il libro di un noto vaticanista ha definito “i lupi” attorno a Francesco.

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