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“L’IA è il nuovo collega in azienda, non un semplice strumento”

Keystone-SDA

L'intelligenza artificiale (IA) è il nuovo collega in azienda, con le sue virtù e suoi difetti, non un semplice strumento: occorre imparare davvero a lavorarci insieme. Lo dice Nadine Bienefeld, esperta di nuove tecnologie e docente al Politecnico federale di Zurigo).

(Keystone-ATS) “Oggi ci si concentra troppo spesso sulla tecnologia per aumentare l’efficienza”, afferma la psicologa in un’intervista pubblicata oggi dal Tages-Anzeiger. “È rischioso che settori come quello sanitario o finanziario introducano tecnologie automatizzate senza trarre insegnamento da altri rami ad alto rischio come quello aeronautico”.

“Se ci affidiamo troppo all’intelligenza artificiale, col tempo perderemo la capacità di valutare correttamente le situazioni e risolvere autonomamente i problemi difficili: è proprio quello che è successo nel 2009 con l’incidente dell’aereo Air France 447”, prosegue l’esperta con trascorsi presso Nasa, Swiss e l’Ufficio federale dell’aviazione civile. “In quell’occasione le cosiddette sonde Pitot, utilizzate per misurare la velocità di volo, erano ghiacciate, causando la disattivazione del pilota automatico. In realtà si trattava di un piccolo problema tecnico, ma i piloti non sono stati in grado di chiedersi: e adesso? Ciò ha provocato una perdita di portanza e l’A330 con oltre 200 persone a bordo è precipitato. È però riduttivo liquidare l’accaduto come un errore umano: si tratta di un esempio lampante di un team uomo-macchina soggetto a errori. E questo pericolo esiste anche quando ci affidiamo ciecamente all’IA”.

“In molti settori è forte la tentazione di delegare i lavori facili e di media difficoltà all’IA e di impiegare le persone solo come autorità di controllo o per compiti socialmente impegnativi”, osserva la specialista. “Ma questo non funzionerà a lungo termine. Ciò sovraccaricherà i dipendenti: non possiamo lavorare il doppio o il triplo e garantire al contempo prestazioni eccellenti”.

Le aziende dovrebbero cogliere ora l’occasione per riprogettare consapevolmente i processi lavorativi. “L’IA dovrebbe integrare le competenze umane e non sostituirle, in modo che i dipendenti non diventino semplici esecutori di algoritmi intelligenti”. Altrimenti tutto si trasformerà in un esperimento incontrollato e ci si renderà conto troppo tardi che non si dispone più delle competenze necessarie. “Il problema è che il nostro cervello è progettato per risparmiare glucosio: migliore è il funzionamento dell’IA, più difficile è per noi rimanere coinvolti nel processo. Tendiamo a dire: perché dovrei ancora controllare, la macchina lo fa così bene. E poi improvvisamente ci ritroviamo esclusi. Questo può diventare pericoloso”.

“Nelle menti e anche nelle aziende non è ancora sufficientemente radicata l’idea che l’IA sia in realtà un nuovo membro del team, con i propri punti di forza e di debolezza”, argomenta la dottoressa. “Il lavoro di squadra sta diventando più importante che mai. E non solo tra l’IA e chi ha competenze tecnologiche. Sono necessarie anche conoscenze provenienti da altre discipline, come la psicologia o la sociologia. Qui vedo un’opportunità, soprattutto per le donne, di cogliere lo sviluppo”. L’intelligenza artificiale riguarda tutti e servono prospettive diverse in termini di genere, età e provenienza. “Tutti noi lavoreremo sempre più spesso in team composti da esseri umani e intelligenza artificiale o esseri umani e robotica”.

Per avere successo in questi team servirà pensiero critico, capacità di gestire l’incertezza e flessibilità, nonché la volontà di intraprendere professioni che non siamo ancora in grado di immaginare. “Indipendentemente dal fatto che qualcuno sappia programmare o meno, ognuno di noi ha, per così dire, un supercomputer in tasca che ci dà accesso a conoscenze mai viste prima”.

“È però importante capire ciò che la macchina ci restituisce”, mette in guardia Bienefeld. “Altrimenti diventeremo semplici esecutori della tecnologia e sarà impossibile individuare gli errori o risolvere problemi più complessi. Il rischio di perdere competenze è reale. E può avvenire rapidamente”. I primi segnali si vedono nel fatto che alcune aziende non assumono più giovani informatici perché l’IA svolge molti compiti di codifica di base. “Di conseguenza, i neolaureati non possono più acquisire le competenze necessarie sul posto di lavoro”.

Gli utenti non devono inoltre trascurare il fatto che il chatbot non può sostituire l’interazione umana e che la sua presunta empatia è solo simulata. “Milioni di persone conversano con avatar dotati di intelligenza artificiale invece di coltivare amicizie reali. Sarebbe più sensato utilizzare l’IA come sparring partner, ad esempio per esercitarsi a comunicare meglio o prepararsi a conversazioni difficili. L’IA può aiutarci a comprendere meglio i punti di vista altrui; può persino renderci più empatici nelle relazioni interpersonali”, conclude l’intervistata.

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