L’addio alle armi del Pkk, bruciato l’arsenale

Le armi utilizzate da oltre 40 anni per combattere contro l'Esercito di Ankara sono state bruciate, accatastate in mezzo a una valle tra le montagne del Kurdistan iracheno, nei pressi di Sulaymaniyya.
(Keystone-ATS) Il Pkk ha abbandonato la lotta armata, dichiarata contro lo Stato turco nei primi anni ’80.
“Al fine di garantire il successo pratico del processo per la pace e una società democratica e di condurre la nostra lotta con metodi politici legali e democratici, distruggiamo volontariamente le nostre armi come gesto di buona volontà e determinazione”, hanno affermato le 15 guerrigliere donne e i 15 militanti uomini che in divisa hanno riposto fucili e mitragliatori in una grande cesta per poi accendere un rogo simbolico, dopo che il Partito dei Lavoratori del Kurdistan aveva già annunciato lo scioglimento nei mesi scorsi con un appello del leader Abdullah Ocalan, imprigionato dal 1999 e condannato all’ergastolo.
Le immagini dell’evento, trasmesse da tutti i media turchi, hanno un carattere epocale. Dopo un conflitto decennale che ha portato alla morte di oltre 40mila persone, una delle pagine più dolorose della storia della repubblica di Turchia e del Medio Oriente pare essere stata voltata per sempre. Per Ankara si tratta di “una svolta irreversibile”, mentre il presidente Recep Tayyip Erdogan ha parlato di “un passo compiuto sul cammino verso una Turchia libera dal terrorismo”.
Migliaia di persone incarcerate
La cerimonia era stata annunciata da tempo e si inserisce all’interno del processo per risolvere la questione curda in Turchia avviato alla fine del 2024. I prossimi passi saranno la formazione di una commissione parlamentare con rappresentanti di tutti i partiti per vigilare sul processo e l’adozione di misure concrete per affrontare la situazione di migliaia persone incarcerate in Turchia con l’accusa di legami con il Pkk o di propaganda a favore dell’organizzazione, ritenuta terrorista da Ankara.
Tra loro Selahattin Demirtas, ex leader del partito filocurdo di Turchia, ancora in carcere dopo l’arresto nel 2016, nonostante la Corte europea dei diritti umani ne abbia più volte chiesto la scarcerazione.
Il governo turco prevede in futuro una fase di “integrazione” come ultima tappa del processo, con “sforzi a lungo termine per guarire le comunità colpite, promuovere la riconciliazione e sostenere la piena reintegrazione (dei militanti o simpatizzanti) nella società”.
L’appello di Ocalan
L’appello per lo scioglimento e l’abbandono della lotta armata era arrivato a fine febbraio direttamente dalla voce di Ocalan, che aveva ordinato al Pkk di dissolversi, affermando che non c’era “alternativa alla democrazia” per ottenere il rispetto da parte di Ankara per l’identità dei circa 15 milioni di curdi di Turchia.
Il Pkk ha mostrato obbedienza al suo leader, convocando un congresso dove è stato dichiarato lo scioglimento del gruppo, fondato nel 1978 come un partito armato di orientamento marxista-leninista con rivendicazioni indipendentiste curde.
Lo scorso autunno il partito di estrema destra nazionalista Mhp, alleato di Erdogan in Parlamento, aveva chiesto a Ocalan di sciogliere il gruppo, in cambio di concessioni sul suo isolamento carcerario. Da allora, il leader del Pkk ha ricevuto varie visite in carcere da parte dei deputati del partito filo-curdo Dem, la terza forza politica più rappresentata nel Parlamento di Ankara, e il processo di pace è stato sostenuto da tutte le principali forze politiche in Turchia.