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L'arte, la nostra identità, una sola umanità

In questo momento storico particolare, spesso l'arte aiuta a interpretare il mondo. Quando ogni comunità cerca di difendere il proprio territorio, si chiude in sé stessa, occorre pensare che facciamo invece parte della stessa unica umanità. Siamo tutti cittadini di questo mondo. Ecco allora che le installazioni dell'artista valtellinese Daniele Pigoni, esposte anche sul trenino rosso del Bernina, patrimonio Unesco, ci fanno capire che apparteniamo tutti alla stessa umanità.

Questo contenuto è stato pubblicato il 01 luglio 2018
Antonia Marsetti

Piccoli uomini quasi accovacciati realizzati in cemento e trasportati in treno (l’opera si intitola “Fourteen”), come fossero passeggeri, da Tirano sino a Pontresina: un'installazione itinerante sul trenino Patrimonio dell'umanità UnescoLink esterno per parlare proprio di umanità in quest'era di "disumanizzazione". "Accettare di appartenere all'umanità in senso largo - dice Pigoni - pur riconoscendo la propria identità, significa anche essere aperti sugli altri".

Questa sorta di installazione itinerante di Daniele PigoniLink esterno, è stata immortalata in un filmato che presto sarà parte integrante della mostra “Appartenenze” che l’artista valtellinese inaugurerà il prossimo 7 luglio a Palazzo Foppoli a Tirano.

Un lungo percorso

Nel 2000 la prima mostra personale in Valtellina, cinque anni dopo - con "L'arte del viaggio" – Daniele si è fatto conoscere davvero. Ha esposto a Milano e in Svizzera – a Lugano e a Locarno - dove di recente è tornato, come detto, con una mostra-installazione che è durata il tempo di un a bordo del rosso trenino, da Tirano a Pontresina. Qui ha esposto per il decennale del riconoscimento Unesco  ottenuto dalla Ferrovia Retica che ogni anno trasporta dagli 800mila al milione di viaggiatori provenienti da 55 nazioni diverse.

Daniele Pigoni, classe 1965, artista valtellinese. In tasca la maturità scientifica studi di Geologia, nelle gambe tante ore trascorrere a scalare pareti in verticale, anche in terre lontane dalla sua Valtrellina, e nelle mani un passato da restauratore.

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Dalla pittura alla scultura, dai colori a olio al cemento. Un percorso, una crescita che in realtà è un leggersi dentro e tornare a quei luoghi – l’oriente – che hanno segnato profondamente la vita di Daniele Pigoni. «L’oriente mi serve come meccanismo di sgancio. Il rito di lasciare il posto dove sono cresciuto, lasciare gli affetti, prendere l’aereo e partire serve alla mia mente per aprirsi, per rielaborare. Diversamente il mio inconscio è cementificato. Questa sequenza permette alle idee di salire a galla, non so come, ma avviene così. Quando sono stato in India, dopo i primi quadri di studio, ho cominciato ad analizzare il modo in cui le persone interagivano fra di loro e formavano delle strutture. Una cosa che avrei potuto applicare anche qua, ma non sarebbe stato visibile».

Daniele dall’Oriente ha importato anche l’uso del cemento, materia che plasma con molta facilità, nonostante la forte allergia: il suo corpo non tollera le polveri. «Dopo essere stato in alcuni quartieri di Delhi, l’elemento che mi ricordava alcune situazioni umane era questo materiale polveroso, che può essere stratificato. Il gesso è già troppo pulito. Nel cemento mescolo anche del fil di ferro. Mi piace l’idea del materiale di recupero e mi piace il ferro che ha un senso come componente del sangue. Inoltre mescolo pezzettini di iuta. In India quotidianamente gli uomini spostano balle di materiale. Mi è venuto in mente il tenere sulle spalle questo tessuto grezzo pungente, che alla sera serve per coprirsi dal freddo».

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