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Werner Bischof: estetica e umanità

Werner Bischof: Suonatore di flauto in cammino per Cuzco, Perù, 1954. Magnum/Bischof

Cinquant'anni fa, moriva in Perù in un incidente d'auto il fotografo svizzero Werner Bischof.

Fotografo d’arte e testimone degli emarginati, fu uno dei primi fotoreporter della storia. Documentò l’Europa del dopoguerra e la caduta del colonialismo.

“I miei occhi si aprono; imparo a vedere”. Con questa frase il fotografo svizzero Werner Bischof illustrava alla fine degli anni quaranta il suo passaggio dalla fotografia di moda a quella del fotoreportage.

Un salto mentale ed emotivo dal scintillante mondo del lusso e delle passerelle a quello crudo e desolante della guerra, delle carestie, della solitudine.

Il trauma della guerra

Werner Bischof, nato a Zurigo nel 1916 e morto nel maggio del 1954, è uno dei fotoreporter del dopoguerra di maggiore spicco a livello internazionale e conta fra i classici svizzeri della fotografia in bianco e nero.

“Bischof ha saputo abbinare l’aspetto documentaristico a quello estetico”, spiega a swissinfo Robert Pfrunder, direttore della Fondazione per la fotografia di Winterthur.

“Bischof si definiva un autore e come tale voleva essere considerato anche da chi pubblicava le sue foto”, dice Pfrunder, “non era un fotografo che forniva semplicemente del materiale.”

Dopo aver lavorato, all’inizio degli anni quaranta, come fotografo di moda, di successo, per la rivista culturale svizzera “du”, Bischof intraprende un viaggio attraverso l’Europa devastata dalla guerra.

Fotografa Berlino, Dresda, Varsavia. È diventata famosa l’immagine spettrale dello scheletro del Reichstag di Berlino, incendiato, ma ancora in piedi.

In Svizzera punta il suo obiettivo sugli emigrati italiani, alla ricerca di un lavoro, ma anche sui rifugiati politici, in fuga dal fascismo.

L’esperienza della guerra lo segna come uomo e come artista. Dimentica le leggiadre figure femminili avvolte in eleganti stoffe e scopre il dolore e la sofferenza.

Bischof fotografa “persone senza storia”, esseri umani colpiti da un destino crudele.

E soprattutto molti bambini, grande tema della sua fotografia. “Guardandoli si può cogliere il significato della società”, diceva.

“Dappertutto emerge il suo interessamento per l’essere umano, per il suo destino. L’artista zurighese si identifica con la sorte delle persone che fotografa”, sottolinea Pfrunder.

Poesia e luce

Bischof diventa così il testimone dei perdenti e degli emarginati, cambia temi ma mantiene intatto il suo amore per la perfezione tecnica, per la ricerca delle simmetrie, per la luce, che nelle sue immagini ha del mistico.

Il grande fotografo Cartier–Bresson osserva che in Bischof anche la miseria più profonda “risplende di luce”.

Le immagini di Werner Bischof, fanno il giro del mondo. Le sue figure, i suoi paesaggi in bianco e nero sono di una poesia struggente.

Nel 1949, Bischof entra a far parte della prestigiosa agenzia fotografica Magnum, della quale fanno parte lo stesso Cartier-Bresson e Robert Capa, e diventa uno dei primi membri.

Un ponte fra culture

Se in Europa aveva documentato le devastazioni della Seconda guerra mondiale, negli altri continenti l’artista svizzero immortala la fine del colonialismo.

Negli anni cinquanta il fotografo compie viaggi in Corea, Giappone, Hong Kong, Indocina.

Documenta l’attualità per riviste e giornali come Epoca, Paris Match, Life, The Observer.

Nel 1951, con un reportage sulla carestia in India, realizzato per la rivista “Vogue”, Bischof riscuote il primo successo internazionale.

“Il suo obiettivo principale era quello di far vedere la realtà così com’è davvero” dice Pfrunder, “ma anche di risvegliare l’interesse e la sensibilità dell’osservatore per altre culture.”

Con il suo particolare linguaggio fotografico, Bischof fa presa sul pubblico. Non fotografa le fiamme di un incendio ma i volti spaventati della gente. Le sue fotografie sono di una bellezza “muta”.

Come una delle ultime e forse più famose immagini: quella del bambino peruviano che nei pressi di Cuzco, cappellino in testa, sacco in spalla e sandali ai piedi, passeggia sul bordo di una scarpata, fischiettando.

Werner Bischof scatta questa foto nel maggio del 1954, poco prima di morire, in un incidente di macchina nelle Ande a soli 38 anni.

swissinfo, Elena Altenburger

Werner Bischof, fotografo svizzero di fama mondiale, fra i primi fotoreporter della storia, nelle sue immagini pone l’accento sull’estetica, concentrandosi sulle forme geometriche e sulla luce.

Inizialmente deciso a diventare pittore, negli anni della Seconda guerra mondiale si avvicina sempre di più alla fotografia, che vede come l’espressione artistica delle sue proprie inquietudini.

Gli eventi bellici, il contatto con gli antifascisti italiani, risvegliano nel giovane Bischof una nuova coscienza fotografica.

La macchina fotografica diventa così uno strumento per mostrare al mondo le ingiustizie sociali, il dolore, i conflitti.

Werner Bischof nasce a Zurigo nel 1916.
Nel 1949 entra all’agenzia Magnum.
Nel 1951 primo successo internazionale con un reportage sulla carestia in India.
Il 16 maggio 1954 muore in Perù, in un incidente d’auto.

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