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“La Svizzera dovrebbe aver più fiducia nelle sue capacità d’integrazione”

Negli Sessanta il dipartimento di giustizia e polizia propone di facilitare l’accesso alla cittadinanza elvetica agli stranieri nati in Svizzera e ben integrati... come uno strumento per lottare contro "l’inforestierimento". Keystone

Se la Svizzera ha una delle leggi sulla naturalizzazione più restrittive d’Europa è anche perché ha sempre visto lo straniero come un lavoratore da prendere e lasciare e non come un cittadino da integrare, afferma Brigitte Studer. Autrice del libro “Il diritto di essere svizzeri”, la storica ritraccia l’evoluzione del nostro rapporto con la cittadinanza, tra integrazione ed esclusione.

swissinfo.ch: La Svizzera ha una delle legislazioni più restrittive d’Europa in materia di naturalizzazione. Eppure alla nascita come Stato moderno, nel 1848, aveva una politica piuttosto liberale. Cosa significava allora essere cittadini?

Brigitte Studer: La Costituzione federale del 1848 introduce un diritto di cittadinanza, ma la Confederazione dà carta bianca a cantoni e comuni. All’epoca la cittadinanza è percepita in un’ottica liberale, come uno strumento per permettere agli uomini di partecipare alla vita politica, in quanto elettori e votanti.

La prassi liberale di alcuni cantoni suscita però l’ira dei paesi vicini. Pur non vivendo in Svizzera, degli stranieri ne ottengono la nazionalità sfuggendo così al servizio militare. La Confederazione è dunque chiamata ad intervenire, ma lo fa in modo limitato, obbligando unicamente i candidati a risiedere nel paese da almeno due anni.

Nata nel 1955 a Basilea, Brigitte Studer si è laureata in storia e letteratura inglese alle università di Friburgo, Losanna e Parigi. È stata la prima storica ad avere accesso agli archivi del Partito comunista a Mosca. Nel 1994 ha scritto una tesi intitolata: “Il partito comunista svizzero e l’Internazionale 1931-1943”. Professoressa di storia all’università di Berna, nel 2013 ha pubblicato il libro “Il diritto di essere svizzero”, assieme a Gérald Arlettaz e Regula Argast. SRF

swissinfo.ch: La Prima guerra mondiale segna un punto di rottura. Con quali conseguenze?

B.S.: Alla fine del XIX secolo, con l’emergere dei movimenti nazionalisti, la cittadinanza diventa tema di dibattito. Alla filosofia repubblicana, secondo cui l’integrazione degli stranieri è necessaria per evitare una società a due velocità, subentra un discorso nazionalista. È in questo periodo che nasce il termine di inforestierimento e il sentimento che la Svizzera debba proteggere le proprie frontiere.

La guerra accentua ulteriormente il nazionalismo, non solo in Svizzera. Nel 1917 la Confederazione crea la polizia degli stranieri e nel 1930 iscrive il principio di difesa nella “Legge federale concernente la dimora e il domicilio degli stranieri”.

swissinfo.ch: Di cosa aveva paura la Svizzera?

B.S.: All’inizio del secolo si temeva soprattutto la rivoluzione russa e l’avanzata dei comunisti, mentre più tardi sarà la crisi economica e lo spettro dello straniero che ruba il lavoro a far paura.

Durante la Seconda guerra mondiale la Svizzera limita al massimo l’accesso alla cittadinanza e per decreto del Consiglio federale, che non ha bisogno dell’avallo del parlamento, introduce la possibilità di revocare la nazionalità. Un gesto particolarmente forte.

swissinfo.ch: Quando s’impone in Svizzera la retorica del “vero svizzero” e del rispetto dei valori elvetici?

B.S.: È un processo lungo, che ha origine nel XX secolo. Sono prima di tutto i cantoni ad introdurre dei test di attitudine nelle procedure di naturalizzazione. Il primo criterio è quello dell’indipendenza finanziaria, mentre è solo dopo la Seconda guerra mondiale – quando la Svizzera diventa consapevolmente democratica – che le conoscenze civiche e politiche entrano in linea di conto.

Nel 1952 la nuova legge sulla cittadinanzaCollegamento esterno introduce in modo esplicito l’obbligo di sottoporre i candidati a testi di conoscenze generali e mette così l’accento di più sul rispetto dei valori elvetici. La normativa aumenta inoltre a dodici anni l’obbligo di residenza in Svizzera e permette finalmente alle donne sposate con un cittadino straniero di mantenere la nazionalità elvetica.

swissinfo.ch: Perché, contrariamente ad altri paesi, la Svizzera vede la naturalizzazione come il compimento di un processo di integrazione e non come uno strumento per facilitarla?  

“La Svizzera si vede come un paese circondato da frontiere, con molti stranieri che vengono, ma che dopo un po’ devono anche ripartire”. 

B.S.: La Svizzera non si è mai definita come un paese d’immigrazione. Di norma, sono i paesi d’immigrazione, come Stati Uniti e Canada, ad aver optato per lo “ius soli” oppure i paesi che hanno cercato di incrementare le nascite, come la Francia.

Storicamente la Svizzera non ha mai avuto interesse ad aumentare la popolazione, al contrario, ha sempre temuto un aumento incontrollato. Si vede come un paese circondato da frontiere, con molti stranieri che vengono, ma che dopo un po’ devono anche ripartire. È una scelta politica chiara: la Svizzera vuole avere il controllo sull’immigrazione e poter rinviare gli stranieri quando l’economia non ne ha più bisogno.

swissinfo.ch: Bisognerà aspettare gli anni Settanta affinché la Svizzera mostri una certa apertura…

B.S.: Sì, negli anni Sessanta il dipartimento di giustizia e polizia propone effettivamente di semplificare le procedure di naturalizzazione, “eliminare ogni elemento arbitrario” e facilitare l’accesso alla cittadinanza elvetica agli stranieri nati in Svizzera e ben integrati. La naturalizzazione facilitata è vista come uno strumento per lottare contro l’inforestierimento. Non bisogna dimenticare che tra il 1965 e il 1974 il popolo è stato chiamato ad esprimersi su cinque iniziative xenofobe, di cui una che chiedeva di limitare il numero di naturalizzazioni. Tutte sono state respinte, ma alcune a stretta maggioranza.

swissinfo.ch: Il popolo ha però respinto per quattro volte la naturalizzazione facilitata per i giovani stranieri di seconda o terza generazione. Come mai?

B.S.: Nel 1983, governo e parlamento chiedono di facilitare la naturalizzazione non solo per gli stranieri nati in Svizzera, ma anche per i rifugiati e gli apolidi ed è soprattutto questo aspetto a sollevare critiche. Nel 1994 il progetto di revisione costituzionale, meno ambizioso, è sostenuto da tutti i partiti politici. Approvato dal popolo, è però respinto dalla maggioranza dei cantoni, in particolare quelli rurali.

Infine, il 26 settembre 2004, il popolo rifiuta di agevolare la naturalizzazione dei giovani stranieri della seconda generazione e di concedere automaticamente la cittadinanza elvetica a quelli della terza generazione. In questo caso è la proposta di introdurre lo ‘ius soli” a far pendere l’ago della bilancia verso il ‘no’.

swissinfo.ch: Questi giovani nati e cresciuti in Svizzera possono già chiedere la cittadinanza elvetica, con una procedura ordinaria. Molti scelgono però di non sfruttare questa possibilità. Quali possono essere le cause?

“Sarebbe come uno schiaffo per i giovani stranieri di terza generazione, un chiaro messaggio che la società svizzera tollera la loro presenza, ma non li ritiene parte della società”.

B.S.: Prima di tutto quando si è giovani si sfugge tutto ciò che è burocratico. E la procedura ordinaria è lunga e costosa. Spesso i candidati devono poi sottoporsi a colloqui approfonditi, che a seconda dei comuni possono essere molto invasivi, e questi elementi possono essere scoraggianti.

È probabile, però, che le richieste di naturalizzazione aumenteranno quest’anno dato che la nuova legge – che entrerà in vigore nel 2018 – prevede regole ancora più severe.

swissinfo.ch: Il 12 febbraio 2017 la Svizzera voterà nuovamente sulla naturalizzazione agevolata per i giovani di terza generazione. Quale sarebbero secondo lei le conseguenze di un ‘no’ popolare?

B.S.: Sarebbe come uno schiaffo per questi giovani, un chiaro messaggio che la società svizzera tollera la loro presenza, ma non li ritiene parte della società. Un ‘no’ popolare significherebbe però anche che la Svizzera non ha fiducia nelle sue capacità d’integrazione. Perché se questi giovani, immigrati di terza generazione, nati in Svizzera e scolarizzati in Svizzera non sono integrati: allora sì che il paese è di fronte a un problema. La Svizzera dovrebbe aver maggior fiducia nella sua capacità d’integrazione! 



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