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La soluzione dei due Stati per una pace giusta

Niente più pietre. Niente più bombe. Gli ebrei svizzeri chiedono la creazione di due Stati: Israele e Palestina. Keystone

Nati in Svizzera in seno a famiglie ebraiche tradizionali, segnate dagli orrori del nazismo e dall’entusiasmo per il nuovo Stato di Israele, Jochi Weil, Erich Bloch e Victor Weiss parlano dell’attuale crisi israelo-palestinese, un conflitto in cui la tregua iniziata martedì ha aperto uno spiraglio di speranza.


«Devono interrompere immediatamente gli attacchi, sia a Gaza sia in Israele, e sedersi a un tavolo per negoziare», dice Jochi Weil. «Parlare è meglio che lanciare bombe e missili. Dobbiamo accettare i palestinesi e loro devono accettare noi», afferma Erich Bloch. «Non mi piace vedere morire tanta gente, tanti innocenti», commenta Victor Weiss.

Erich Bloch e Victor Weiss vivono in Israele e rappresentano la comunità elveticaCollegamento esterno nel paese, composta da circa 18’000 persone, nel parlamento degli svizzeri dell’estero. Jochi Weil risiede in Svizzera; per trent’anni è stato responsabile di progetti medici a Gaza e in Israele.

Strategia svizzera di protezione in caso di attacco

L’ululare delle sirene avverte gli abitanti di Rohovot, luogo di residenza di Victor Weiss a sud di Tel Aviv, non lontano dalla frontiera con la Striscia di Gaza, che è il momento fuggire nei rifugi.

Erich Bloch ha già dovuto recarsi una mezza dozzina di volte nei rifugi vicino a casa sua, a Netanya. «È davvero stressante», commenta.

La colonia svizzera veglia sui suoi membri. Bloch spiega che hanno affittato un albergo in città per accogliere gli svizzeri in caso di evacuazione. La misura è finanziata grazie al sostegno della comunità ebraica in Svizzera.

Weiss e Bloch hanno partecipato a metà agosto al congresso annuale dell’Organizzazione degli svizzeri all’estero (OSE)Collegamento esterno a Baden (canton Argovia). Entrambi hanno chiesto che sia mantenuto il registro obbligatorio degli svizzeri all’estero. «Per noi è molto importante, per ragioni di sicurezza», nota Bloch.

Il primo è membro del Partito socialista in Svizzera e in Israele, il secondo è vicedirettore del dipartimento scientifico del Ministero israeliano della scienza, della tecnologia e dello spazio. Entrambi hanno fatto parte del movimento sionista giovanile.

«Essendo ebreo, ero motivato a farlo perché nel 1967 Israele era uno Stato molto giovane, l’unica casa del popolo ebraico nel mondo, e volevo contribuire a costruirlo. Ero molto entusiasta. Ci sono stato una prima volta nel 1970 e poi una seconda nel 1983, per restarvi definitivamente», racconta lo scienziato, originario di Berna, che ha ottenuto un dottorato di ricerca nel Weizman Institute of ScienceCollegamento esterno in Israele.

Erich Bloch vedeva nel sionismo, nell’esistenza dello Stato di Israele, la risposta all’antisemitismo in Europa e nel mondo. Combinava il suo lavoro di parlamentare, prima nel suo cantone natale, Sciaffusa, poi nel parlamento federale svizzero, con la sua militanza nel movimento sionista.

Oggi, ormai in pensione, prosegue la sua attività politica. Di recente ha fondato il ramo israeliano della sezione internazionale del Partito socialista svizzero.

C’è sempre una soluzione

Nato nel 1942 a Zurigo, anche Jochi Weil è in pensione. Sua madre nacque ad Amburgo e scappò dalla Germania durante il regime nazista. Due delle sue sorelle non ebbero la stessa fortuna e morirono nei campi di sterminio.

«Conosco la storia dell’olocausto per ragioni familiari. Sono cresciuto in una famiglia più o meno liberale, soprattutto dal lato di mia madre. Diceva sempre che bisognava essere aperti verso tutti gli esseri umani. Ho ereditato questa idea»

Dal suo punto di vista è sempre possibile trovare una soluzione. «Non bisogna mai arrivare alla situazione della seconda guerra mondiale. Come ebrei, il nostro obbligo profondo è evitarlo, non solo per gli ebrei, ma per qualsiasi essere umano nel mondo».

Rispetto alla situazione attuale in Israele e Palestina, Weil afferma: «È urgente discutere con rispetto reciproco, sullo stesso piano, per trovare una soluzione giusta, che a mio avviso corrisponde alla creazione di uno Stato palestinese con le frontiere precedenti alla guerra del 1967».

«La situazione attuale non è positiva né per Israele, né per il popolo palestinese. Sono per la creazione di due Stati, Israele e Palestina. Due Stati che convivano in sicurezza e libertà», dice dal canto suo Bloch. «Due Stati che vivano insieme, con gli stessi diritti», aggiunge Weiss.

«Quasi in una situazione di pace»

Jochi Weil è rimasto a Zurigo, ma mantiene viva la rete di contatti e amicizie che ha creato dal 1981 nel corso di tre decadi di andate e ritorni da Gaza, Cisgiordania e Israele come responsabile di progetti di assistenza medica. «Insieme ci occupavamo dei pazienti per molte ore. C’era un clima molto piacevole. Ci sentivamo quasi in una situazione di pace».

Migliaia di israeliani si sono riuniti sulla piazza Rabin a Tel Aviv, il 14 agosto 2014, per chiedere maggiore protezione per le popolazioni che vivono sul confine con la Striscia di Gaza. Keystone

I nostri interlocutori sono concordi sull’urgenza che la Svizzera, come Stato membro delle Nazioni unite e depositario delle Convenzioni di Ginevra, convochi una conferenza internazionale che metta fine alla violenza. «Non possiamo continuare così per 10, 20, 30 anni. La situazione è bloccata e dobbiamo negoziare. Servono nuove idee e più coraggio. Spero che ci saranno», osserva Bloch.

«Ci sono stati molti crimini, soprattutto da parte di Israele, ma anche da parte dei palestinesi. È molto importante ricorrere alla Corte penale internazionale per analizzare con chiarezza e rigore giuridico questi crimini», dice dal canto suo Weil.

Dall’inizio delle violenze l’8 luglio hanno perso la vita più di 2100 palestinesi, per la maggioranza civili, tra cui circa 500 bambini. Da parte israeliana il bilancio è di circa 70 morti, tra cui quattro civili, uno dei quali era un bambino.

Weiss riconosce che le perdite sono state numerose. «Non mi piace vedere tanti morti, tanti innocenti morti», dice, però osserva che Israele deve difendere la sua popolazione dai continui attacchi. «Si tratta di attacchi intensi, negli ultimi mesi sono stati lanciati migliaia di missili», ricorda, aggiungendo che Hamas usa i civili e le loro infrastrutture per difendersi.

Ciò che rimane delle Torri al-Nada di Beit Lahiya, nella Striscia di Gaza. Keystone

Diritto alla resistenza

«Hamas sta usando la gente come scudo umano?», ha chiesto Weil ai suoi contatti a Gaza. «Una palestinese ‘non dogmatica”, madre di cinque figli, mi ha risposto: ‘Io non sostengo Hamas, però loro combattono per la nostra libertà».

«Neppure a me piace Hamas», precisa Weil. «Però è un movimento di resistenza. I palestinesi, soprattutto quelli di Gaza, hanno subito una tale repressione che hanno il diritto di resistere».

Se per Jochi Weil, che durante oltre 30 anni ha contribuito a creare un ponte tra la comunità israeliana e quella palestinese lavorando per la Centrale sanitaria svizzera (oggi Medico International), è urgente mettere fine al blocco di Gaza e dare ai palestinesi «la possibilità di guadagnarsi una vita degna», per i nostri altri due interlocutori le priorità sono altre.

«È difficile. Bisogna mettere fine al blocco, ma credo che prima occorra garantire la sicurezza di Israele. La sicurezza è prioritaria», afferma Bloch.

«Ci deve essere un accordo e Gaza deve interrompere il lancio di missili. Allora ci sarà la pace e la soluzione dei due Stati. In tal caso Israele potrà levare completamente il blocco», dice dal canto suo Weiss. A suo avviso anche la questione delle colonie potrà essere risolta quando ci sarà un accordo di pace completo.

Bloch è fortemente contrario alle colonie e si esprime in favore almeno di una moratoria. Weil ricorda le parole di una storica sua amica: «Le colonie distruggono la nostra anima ebraica».

«In Israele vogliamo davvero la pace e siamo disposti ad accettare una serie di compromessi», conclude Weiss. «Per raggiungere una pace negoziata è necessaria una politica intelligente, un po’ di psicologia e la fiducia tra le parti», dice Bloch. «Vista la nostra storia, noi ebrei abbiamo molta paura. Bisogna anche capire le nostre emozioni, però questa non può essere una scusa per combattere e opprimere il popolo palestinese», osserva Weil.

Traduzione dallo spagnolo di Andrea Tognina

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