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Vincenzo Vela, il patriota e l’artista

Il monumento all'alfiere dell'esercito sardo posto davanti a Palazzo Madama, a Torino. swissinfo.ch

Di spirito liberale e repubblicano, Vincenzo Vela è stato uno dei padri del risorgimento artistico italiano. Nato e cresciuto a Ligornetto – un piccolo villaggio del canton Ticino – ha trascorso gli anni più floridi della sua carriera a Torino, dove sono tuttora vive le tracce del suo passaggio.

Davanti a Palazzo Madama, sede del primo senato del Regno d’Italia, si erge la statua di un alfiere con una sciabola sguainata e tricolore. È il simbolo di un’Italia repubblicana e di uno scultore liberale che ha cercato di trasmettere con la sua arte la sete di cambiamento di una nazione ancora agli albori.

Impiegato fin da piccino nelle cave del Mendrisiotto come scalpellino, e poi adolescente nel cantiere del Duomo di Milano, Vincenzo Vela arriva a Torino nel 1852 costretto all’esilio a causa della sua vicinanza ai movimenti mazziniani che si battevano per l’unità d’Italia.

«Era un artista dai forti ideali politici, un uomo impegnato nella e per la Storia. Vedeva nella cultura uno strumento di propaganda, nell’accezione più positiva del termine», ci spiega Gianna Mina, direttrice del Museo Vincenzo Vela a Ligornetto e presidente dell’Associazione dei musei svizzeri (AMS). «Attraverso le sue opere, collocate con perizia nello spazio pubblico, riusciva a trasmettere i suoi ideali politici e a renderli comprensibili al cittadino. E questo grazie a un nuovo linguaggio, più realistico, e lontano dal classicismo accademico».

La Torino rivoluzionaria

Nella capitale sabauda Vincenzo Vela trova un ambiente particolarmente vivace ed è proprio in questa città che trascorrerà gli anni più intensi della sua carriera di artista e accademico.

«Dopo il fallimento della prima guerra d’indipendenza, Torino aveva accolto molti esuli aristocratici milanesi e in città si respirava un’aria di cambiamento. Si trattava di un clima ideale per questo giovane emigrante, che avrebbe poi contrabbandato armi per gli uomini di Cavour dal Ticino al Piemonte», commenta Gianna Mina.

Grazie alla fama acquisita negli anni milanesi, in poco tempo il padre dello Spartaco si trova sommerso di commissioni per la realizzazione di monumenti pubblici e di statue funerarie. E malgrado la sua vena rivoluzionaria diventa lo scultore ufficiale di casa Savoia.

«Deve essergli costato parecchio», commenta Gianna Mina. «Vela, repubblicano convinto, doveva sottostare ai desideri di un re, tentando al contempo di non condizionare troppo la sua indipendenza artistica».

Nuovi eroi

Tra i precursori del realismo in scultura, Vincenzo Vela rappresenta un punto di riferimento imprescindibile per la scultura italiana dell’Ottocento, ci spiega Virginia Bertone, conservatrice presso l’Accademia albertina di belle arti di Torino.

«A quell’epoca la presenza di Antonio Canova (1757-1822) era un modello ineludibile in Italia, ma Vela era riuscito a riproporre questa tradizione neoclassica in chiave moderna e a inventare un nuovo stile. La Torino artistica deve molto a Vincenzo Vela e alle numerose opere che ci ha regalato».

A Palazzo Reale, nel cuore della residenza sabauda, troviamo la statua di re Carlo Alberto che si affaccia sullo scalone ad accogliere i visitatori. E poco più in là, nell’attuale sede del Municipio, il palazzo di Città, si erge il monumento a Vittorio Emanuele II. «Un’opera che colpisce», ci dice Gianna Mina, «nella quale Vela è riuscito a rendere il re, figura colossale e sovradimensionata per la nicchia che la racchiude, una rappresentazione simbolo di coraggio».

Nelle opere di Vela l’eroismo si coniuga con il realismo per ritrarre un Cesare Balbo in abiti borghesi, seduto, o una Minerva dagli occhi tristi. Nulla a che vedere dunque con l’aura classica con la quale venivano ritratti un secolo prima gli dei, gli imperatori o gli statisti. «Vincenzo Vela non è mai stato retorico, riusciva a tradurre la sua carica espressiva in un accentuato realismo, cercando sempre di restare vicino allo sguardo del cittadino», aggiunge Gianna Mina.

Caro maestro

Oltre ai suoi incarichi di scultore, a Torino Vincenzo Vela si dedica con passione e tenacia all’insegnamento.

Così scriveva il maestro*: «Cari allievi, io vorrei dirvi innanzitutto che l’arte a cui vi siete dedicati esige innanzitutto sacrifici non lievi. Guai all’artista che considera l’arte sua soltanto come un mezzo di lucro e l’abbassa al livello di una semplice manualità. Ricordiamoci che le statue passano alla posterità e che gli scultori non debbono essere giudicati soltanto dal loro secolo.»

All’epoca il Piemonte non ha una grande tradizione nel campo della scultura in pietra e gli artisti lavorano molto il legno. «Vincenzo Vela si trova dunque di fronte dei giovani forse un po’ sprovveduti», spiega Gianna Mina, «ma dalle enormi potenzialità – come dimostrerà la sua “scuola” – e proprio per questo egli trasforma l’insegnamento in una missione di vita. Probabilmente avrebbe voluto aprire una scuola anche nella sua casa-museo di Ligornetto, per offrire agli allievi ticinesi un luogo dove formarsi, senza essere costretti a partire per l’estero».

Malgrado il suo esilio artistico, Vincenzo Vela torna ogni estate nella sua Ligornetto e a partire dal 1862 inizia la costruzione della casa-museo nella quale vivrà per gli ultimi 25 anni della sua vita. «Con l’unificazione dell’Italia nel 1861, e la morte di Cavour, la Torino rivoluzionaria stava lasciando spazio a quella più istituzionale. Vela sentiva che gli veniva a mancare lo spazio di libertà di cui aveva goduto fino a quel momento,»  ̶  aggiunge la direttrice del museo  ̶  «senza contare le crescenti gelosie cui doveva far fronte.»

Nel 1867 Vincenzo Vela decide così di lasciare Torino, dopo le anomalie procedurali di un concorso perso per un monumento in onore del conte di Cavour. «Voglio però credere – scrive anni dopo all’allievo Della Vedova** – che la buona popolazione torinese non dubiterà dell’amore che le ho sempre avuto e non avranno dimenticato, devo dirlo, i sacrifici che ho fatto per riformare la scuola di scultura degna della città». Qui lavorerà intensamente per altri 25 anni, ma in modo più appartato, regalando alcuni capolavori assoluti, quali Le vittime del lavoro (1883-84) in memoria delle vittime del cantiere del tunnel del San Gottardo.

*Tratto dal documentario “Vincenzo Vela. Lo scultore della libertà”, di L. G. Ceccarelli, 2011.

** Tratto dall’articolo “Gli anni torinesi di Vincenzo Vela”, di V. Bertone e M. Tomiato, in “Gli svizzeri a Torino”, Ed. Arte&Storia, 2011.

Nato a Ligornetto nel 1820 da Giuseppe Vela e Teresa Casanova, Vincenzo inizia a lavorare come scalpellino a Besazio e a Viggiù.

Intorno al 1834 raggiunge il fratello Lorenzo a Milano e inizia a lavorare al cantiere del Duomo.

Iscrittosi all’Accademia di Brera si fa subito notare ai concorsi scolastici e completa la sua formazione di scultore presso lo studio di Benedetto Cacciatori.

Nel 1842 vince il concorso dell’Accademia di Venezia. La statua del «Vescovo Luvini» (1844) e «La preghiera del mattino» (1846) suscitano un certo scalpore per la loro perentoria adesione al reale, raccogliendo ampi consensi tra il pubblico e la critica progressista.

Nel novembre del 1847 partecipa come volontario alla guerra del Sonderbund, dove conosce il generale Henry Dufour, che ritrae nel 1849; nel 1848 prende parte alla campagna contro l’Austria in Lombardia.

Rientrato a Milano, torna all’attività di ritrattista e scultore funerario per le principali famiglie dell’aristocrazia milanese.


Nel 1851 l’esposizione a Brera dello «Spartaco» lo consacra capofila della scuola naturalista e portavoce degli ideali risorgimentali in scultura. L’anno successivo, costretto a lasciare il capoluogo lombardo, si stabilisce a Torino dove può contare sull’appoggio degli ambienti liberali.

Dal 1856 è professore di Scultura all’Accademia Albertina. Nella capitale sabauda vive una stagione di alacre attività scandita dalle grandi commissioni pubbliche e dalla presenza alle esposizioni nazionali e internazionali.


Dopo il trionfo conseguito all’Esposizione Internazionale di Parigi nel 1867 con «Gli ultimi momenti di Napoleone I» acquistato dall’imperatore Napoleone III per lo stato francese, lo scultore si ritira nella sua villa di Ligornetto, dove lavorerà ancora per 25 anni.

Gli anni ’80 segnano un’ulteriore evoluzione stilistica e rinnovati successi con le «Vittime del lavoro» (1882-83), i monumenti ad «Agostino Bertani» (1887) e al generale «Giuseppe Garibaldi» (1889).

Dopo la morte dell’artista, il figlio Spartaco, seguendone le volontà, lega alla Confederazione svizzera la villa di Ligornetto e l’intero lascito artistico del padre, cui andranno ad aggiungersi le proprie opere e numerosi gessi dello zio Lorenzo.

Nel 1898 apre i battenti il Museo Vela, secondo museo federale dopo il Museo nazionale svizzero a Zurigo e primo museo del Canton Ticino, oggi denominato Museo Vincenzo Vela.

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