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Valeria, gli altri, e il pericolo di morire due volte

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di Aldo Sofia

C’è chi muore due volte. E si potrebbe pensare che sia successo a Valeria Solesin, la ventottenne veneziana, dottoranda alla Sorbona, una vita spezzata brutalmente al Bataclan di Parigi, la ribalta scelta da chi uccide in nome di un Dio inesistente per una strage di crudeltà senza precedenti nel cuore dell’Europa: i corpi degli ostaggi stesi in terra, i terroristi che selezionano le vittime, l’esecuzione con un colpo alla testa per finire chi non è già caduto al momento dell’assalto. Sì, inconsapevolmente i portatori di odio hanno tentato di ucciderla due volte.

Non potevano sapere, e non gli sarebbe importato proprio nulla, che quella giovane studentessa modello, piena di energia e di ottimismo, aveva idee precise sul mondo a cui credeva: un mondo pacifico, di convivenza, di dialogo, di grande impegno sociale. Proprio per tutto questo Valeria era stata (prima a Venezia e poi negli anni dell’Università a Trento) una collaboratrice di Emergency, l’organizzazione di Gino Strada, che ha alzato i suoi ospedali da campo nei luoghi e nei paesi più pericolosi, e spesso accusata di curarsi di tutti, civili e combattenti; senza distinzione; organizzazione che è stata ammirevole anche come avanguardia della cura dell’ebola nel cuore di un’Africa dove pochi, pochissimi, avevano il coraggio di impegnarsi nella lotta alla nuova peste.

Quella scelta per Emergency, e ciò che ci racconta chi l’ha conosciuta, ci narrano di una vita che testimonia idee non solo lontanissime ma proprio agli antipodi di chi l’ha massacrata in quella sala di concerto. Una che “si era conquistato ogni millimetro della sua esistenza”. E anche i suoi studi erano rivolti alla condizione femminile, in famiglia e sul posto di lavoro. Nulla, ripetiamo, che potesse interessare ai suoi fanatici assassini. E chissà quante altre Valerie ci saranno state fra gli oltre ottanta uccisi al Bataclan. Assolutamente non per tracciare un distinguo fra una vittima e l’altra. Ma per dire di un atroce paradosso.

Non l’unico, naturalmente, nella storia della violenza terroristica. Basta tornare alla strage di Charlie Hebdo. E ricordarsi di Ahmed Merabet, origine algerina, il poliziotto musulmano che stava a guardia dell’entrata della redazione, ucciso freddamente dai jihadisti mentre da terra alzava le mani in segno di resa. Un tweet fece allora il giro del mondo: “Io non sono Charlie. Io sono il poliziotto musulmano ucciso. Charlie metteva in ridicolo la mia fede religiosa, e io sono morto per difendere il suo diritto di vivere”. Nella lista delle vittime straniere al Bataclan ci sono 13 diverse nazionalità. Fra loro anche marocchini, algerini, tunisini. Le stesse radici di chi ne ha falciato la vita.

No, Valeria non condividerebbe l’idea di essere morta due volte, insieme alle sue convinzioni. E probabilmente, per come l’abbiamo capita, condividerebbe la straziante lettera pubblica scritta da Antoine, padre di un piccolo che ha perso la madre nella tragica macelleria dell’undicesimo Arrondissement: “Non avete nemmeno diritto al suo odio, e al nostro”.

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