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Il retrogusto amaro dei viticoltori

gruppo di persone tra i vigneti
A fare inferocire il movimento di protesta 'Raisins de la colère' non è il calo del consumo, bensì la concorrenza dall'estero. zvg

I viticoltori della Svizzera francese sono allarmati. Da tempo sono sotto pressione a causa della concorrenza dall'estero e della scarsa solidarietà degli svizzero-tedeschi che preferiscono bere vino italiano. La pandemia ha aggravato la crisi.

La situazione è paradossale. Le annate 2018 e 2019 sono state da record per i viticoltori svizzeri. Ottimo raccolto, vino di eccellente qualità, cantine piene. Ma invece di fare l’affare della loro vita, i viticoltori sono confrontati con un mercato avaro. “Sono molto preoccupato per il futuro della viticoltura in Svizzera”, dice Alexandre Fischer di Yens-sur-Morges, nel canton Vaud.

Per questo motivo, assieme ad altri produttori della Svizzera francese e del Ticino, il 36enne ha creato il movimento di protesta ‘Raisins de la colère’ (Uva della collera) a cui hanno aderito circa 400 coltivatori, soprattutto giovani. In dicembre, il gruppo ha manifestato davanti a Palazzo federale, sede del governo e del parlamento svizzeri, e ha cercato il dialogo con il ministro dell’economia elvetico ed ex viticoltore Guy Parmelin.

uomo tra i vigneti
“Entro dicembre molti andranno in fallimento”, pronostica il viticoltore Alexandre Fischer. zvg

La pandemia causata dal nuovo coronavirus ha peggiorato la loro situazione: prima la chiusura dei ristoranti a causa del blocco delle attività ordinato dal governo e poi una vendita che non decolla. Annullando i festival, le manifestazioni sportive, le conferenze e altri eventi, sono stati cancellati anche i momenti conviviali in cui venivano stappate bottiglie di vino e levati i calici per un brindisi.

“Le nostre cantine sono piene, quando invece dovrebbero essere pronte ad accogliere il vino di quest’anno”, constata Fischer. In settembre inizierà la vendemmia, il momento culminante dell’anno. Ma non per il 2020. “Entro dicembre molti andranno in fallimento”, pronostica Fischer.

Più produzione, meno consumo

Gli svizzeri amano sempre meno bere vino, una tendenza che non fa certo piacere ai produttori. L’anno scorso sono stati venduti 255 milioni di litri in Svizzera, sono circa 40 bottiglie a testa, e da anni si registra un calo dei consumi.

“Le nostre cantine sono piene, quando invece dovrebbero essere pronte ad accogliere il vino di quest’anno.”

Alexandre Fischer, viticoltore

Stando a Louis-Philippe Bovard, membro della famiglia che da dieci generazioni gestisce la rinomata casa vinicola Bovard a Cully, la produzione di vino è aumentata a causa del cambiamento climatico e le abitudini dei consumatori sono mutate. “In passato si beveva sempre vino. Era poco alcolico e leggermente frizzante. Soprattutto nella Svizzera romanda si era soliti ordinarne tre decilitri alle undici di mattina”, dice il viticoltore 85enne. “Al giorno d’oggi, invece, il vino accompagna soltanto cibi ricercati”. In altre parole, il vino svizzero è buono e ce n’è troppo in commercio.

A fare inferocire il gruppo ‘Raisins de la colère’ non è il calo del consumo, bensì la concorrenza dall’estero. Il vino svizzero occupa una quota di mercato interna di appena il 35 per cento. I produttori indigeni non sono in grado di competere con il vino a buon mercato di altri Paesi. “Nel Lavaux, i costi di produzione sono maggiori rispetto all’estero visto che i vigneti si trovano in collina e non è possibile lavorare con le macchine”, dice Bovard. Inoltre, i salari sono più alti e le normative più severe. Nel 2007, i terrazzamenti nel Lavaux sono stati inseriti nella lista del Patrimonio culturale dell’UNESCO e non possono essere modificati.

donna con un calice di vino tra delle botti
La viticoltrice Laura Paccot ha rivisto la sua strategia di vendita e punta ora soprattutto sulle consegne a domicilio ai privati. Dominique Derisbourg/zvg

Ci vuole spirito innovativo per tenere il passo con la concorrenza. Un’attitudine di cui sono dotati molti viticoltori della Svizzera francese. Tra cui anche Laura Paccot, giovane viticoltrice presso la rinomata casa vinicola La Colombe a Féchy.

“Di solito vendiamo la metà delle nostre bottiglie a commercianti e ristoranti. In marzo, però, non lo abbiamo potuto fare”, racconta Paccot. “Questa situazione ci ha obbligato a cambiare strategia. Abbiamo così puntato soprattutto sulle consegne a domicilio ai privati”.

In questo modo, La Colombe ha potuto limitare le perdite. Anche la casa vinicola Bovard ha registrato una perdita a causa del lockdown, ma i clienti di lunga data si sono dimostrati solidali e hanno acquistato molto vino.

Per i piccoli viticoltori, che vendono l’uva ad altri produttori, lo spazio di manovra è invece molto limitato.

Ottimo vino per zuppe istantanee

Anche a Berna si sono resi conto che il settore sta vivendo un momento difficile a causa della crisi causata dal coronavirus. Il consigliere federale Guy Parmelin ha messo a disposizione 10 milioni di franchi per declassare il vino di qualità e per liberare almeno un po’ le cantine. I viticoltori hanno ricevuto dalla Confederazione due franchi al litro per il vino a denominazione di origine controllata, venduto come vino da tavola e impiegato nella produzione di miscele di formaggi per la fondue o di zuppe preconfezionate. Per i viticoltori si è trattato di una goccia nel mare.

“L’apertura delle frontiere ha contribuito a migliorare la qualità del vino svizzero.”

Laura Paccot, viticoltrice

I viticoltori non hanno protestato soltanto davanti a Palazzo federale. Per attirare l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, il produttore ginevrino e presidente dell’Associazione svizzera viticoltori-vinificatori Willy Cretegny ha intrapreso lo scorso ottobre uno sciopero della fame di dieci giorni. La situazione è per taluni talmente drammatica che non hanno visto altra via d’uscita che quella del suicidio. “Non si può continuare così!”, dice un esasperato Alexandre Fischer.

La pandemia ha esacerbato le difficoltà di un settore che da tempo sta lottando contro un problema tipicamente elvetico. I prodotti indigeni sono cari, anche per gli stessi svizzeri. Il mercato è distorto, il vino a buon mercato proveniente dall’estero viene sostenuto dall’Unione europea, dicono i viticoltori.

Per questo motivo, il gruppo ‘Raisins de la colère’ chiede che il governo adotti delle misure per limitare l’importazione di vino, riducendo il contingente di 170 milioni di litri. Una misura simile obbligherebbe il governo a rinegoziare i trattati con l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), un obiettivo difficilmente realizzabile. L’altra richiesta interessa il turismo degli acquisti: al posto degli attuali cinque litri, i viticoltori svizzeri chiedono che solo due litri di vino siano esentati dal dazio.

Alexandre Fischer illustra un’altra possibilità per proteggere il mercato nazionale: promuovere lo smercio del vino svizzero tramite prestazioni all’interno del Paese in relazione all’attribuzione di contingenti doganali, come avviene al momento con la carne di manzo. Questa misura obbliga il commerciante a mettere sul mercato anche prodotti svizzeri e non solo quelli importati. Una strategia resa possibile dall’articolo 22 della Legge sull’agricoltura e compatibile con gli accordi con l’OMC. È un’idea che in maggio è stata concretizzata in una mozione parlamentare presentata dalla senatrice popolare democratica Marianne Maret e dal deputato popolare democratico Benjamin Roduit.

Innovazione e qualità contro il vino a buon mercato

Non è la prima mozione che cerca di aiutare i viticoltori. Finora, però, nessuna ha avuto successo in parlamento. Laura Paccot non crede molto alle misure protezionistiche. “L’apertura delle frontiere ha contribuito a migliorare la qualità del vino svizzero”, dice la giovane viticoltrice. “Una sana concorrenza fa bene, anche se non va sottovalutata la distorsione del mercato. I salari in Svizzera sono più elevati. Solo così i nostri collaboratori possono condurre una vita dignitosa”.

Anche lei è preoccupata per il futuro del settore, ma ritiene che i viticoltori svizzeri debbano darsi una mossa, essere più innovativi e conquistarsi il mercato con un prodotto di qualità. “Solo così i consumatori sono disposti a pagare di più”, sostiene Paccot.

È un argomento che non convince il presidente di Swiss Wine Promotion, Robert Cramer: “Molti svizzeri amano passeggiare nel Lavaux, ammirandone i terrazzamenti. In negozio acquistano comunque vino estero perché più a buon mercato”. Ciò vale soprattutto per gli svizzero-tedeschi. Se in Romandia e Ticino viene prodotto oltre l’85 per cento del vino, la maggior parte viene smerciato nella Svizzera tedesca. Ma proprio lì, molti acquistano vino italiano.

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Vino svizzero all’estero?

Come molti viticoltori, anche Cramer vorrebbe avere a disposizione più mezzi finanziari per pubblicizzare il vino svizzero all’estero. “La Confederazione ci dà solo tre milioni di franchi all’anno per la promozione del vino svizzero. I viticoltori italiani, per esempio, ricevono oltre 100 milioni di franchi. La Svizzera è un mercato molto redditizio per loro”. Per il momento, all’estero è difficile trovare bottiglie di vino svizzero: ne viene esportato solo il 2 per cento.

L’85enne viticoltore Louis-Philippe Bovard guarda all’attuale situazione con tranquillità e dall’alto della sua lunga esperienza. Lui ha già superato alcune crisi analoghe e ha una sua ricetta per aiutare il settore: “Basterebbe ridurre la produzione, riducendo il numero di vitigni”.

Traduzione dal tedesco: Luca Beti

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