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Uno sguardo fotografico sull’Italia del dopoguerra

Federico Patellani, Minatori di Carbonia, Sardegna 1950, stampa alla gelatina d'argento, 51 x 41,5 cm

Chi dice neorealismo, pensa al cinema italiano del secondo dopoguerra. Ma la fotografia ebbe un ruolo altrettanto importante nella ricerca di una nuova identità nazionale dopo il ventennio fascista.

Al neorealismo in fotografia è dedicata un’ampia mostra al Fotomuseum di Winterthur, che permette di (ri)scoprire i lavori di 75 autori più o meno noti.

Nell’immediato dopoguerra, film come «Roma città aperta» o «Ladri di biciclette» fecero dell’Italia uno dei paesi faro della cinematografia mondiale, cambiando il modo di raccontare storie sul grande schermo.

Un’intera generazione di registi guardava con occhi nuovi alla società italiana, scopriva un paese ancora in larga misura rurale, per molti versi sconosciuto, uscito da poco dal fascismo e dalla guerra e in cerca di una nuova identità.

Anche nella letteratura autori come Carlo Levi, Ignazio Silone, Beppe Fenoglio, Cesare Pavese e tanti altri provarono la necessità di narrare le vicende della guerra, di raccontare l’Italia in modo nuovo, di dar voce agli ultimi, ai dimenticati.

A questa temperie culturale non fu estranea la fotografia. Anzi, le sue caratteristiche tecniche ne facevano uno strumento ideale per fungere da specchio di un paese in cui l’analfabetismo era ancora molto diffuso e in cui l’italiano standard rimaneva la lingua delle classi alte.

L’immagine, un linguaggio universale

«L’immagine è un linguaggio universale, che poteva essere capito da tutti, alfabeti e analfabeti, settentrionali e meridionali», osserva Enrica Viganò, curatrice della mostra al Fotomuseum di Winterthur. Al pari e forse più del cinema, la fotografia ebbe un ruolo importantissimo per creare una nuova percezione della realtà sociale italiana.

«Con l’invenzione del rotocalco, la fotografia divenne molto importante per la stampa. Nel dopoguerra c’è stata un’esplosione dei giornali illustrati», ricorda Viganò. «E il fotogiornalismo dell’epoca sentiva la necessità di mostrare quello che succedeva nella società».

Di questo anelito all’indagine sociale, geografica e antropologica della penisola l’esposizione al Fotomuseum di Winterthur offre molti esempi di grande impatto, sia dal punto di vista del contenuto, sia da quello formale.

Circa duecento foto in bianco e nero, oltre la metà delle quali stampe d’epoca, offrono uno sguardo suggestivo e di enorme valore documentario sulle città e sulle campagne italiane prima del boom economico degli anni Sessanta.

Spirito neorealista

«Il neorealismo è stato un fermento che ha toccato tutti i fotografi dell’epoca», rileva Enrica Viganò. «Alcuni erano fotoamatori o fotogiornalisti, altri avevano semplicemente il desiderio di andare a scoprire il sud. Al nord nessuno sapeva niente della Basilicata, per esempio. E facevano viaggi lunghissimi, perché non c’erano strade né treni, per scoprire qualcosa di nuovo».

Finora però, il termine «neorealismo» era stato raramente associato alla fotografia. «In realtà tantissimi degli autori esposti non si definivano neorealisti», afferma ancora la curatrice della mostra. «Ma nella loro scelta di andare in un luogo, investigare e poi farlo conoscere c’è lo spirito neorealista».

L’assenza di una consapevolezza di gruppo impedì alla fotografia italiana del dopoguerra di diventare una vera e propria scuola, com’era accaduto per il cinema.

«La fotografia era un mestiere oppure un hobby, non un’arte come quella cinematografica. Le mancavano gli spazi di dibattito», spiega Enrica Viganò.

Le radici nel fascismo

Oltre a dare un nome ad un movimento spontaneo e disorganizzato e a stabilire relazioni tra figure isolate del panorama fotografico italiano, la mostra ha il grande merito di invitare alla riflessione sulle origini del neorealismo.

Un’intera sezione della mostra è dedicata al realismo fotografico in epoca fascista. «Finora si considerava generalmente che il neorealismo fosse nato alla fine dell’epoca buia del fascismo, grazie al recupero della libertà di espressione», dice Viganò. «In realtà le origini del neorealismo vanno ricercate nell’atteggiamento di Mussolini verso il cinema e la fotografia».

Consapevole della potenzialità propagandistica dei nuovi media, Mussolini diede un forte impulso al cinema e alla fotografia, in un ottica «realista». Il realismo doveva servire a confermare le «verità» del regime, «a far vedere che la gente vera stava bene sotto il regime».

Ovviamente questo atteggiamento andava di pari passo con la censura. Nel frattempo molti fotografi si erano però trovati nelle mani uno strumento che potevano utilizzare per conto loro, per mostrare la loro realtà, anche se poi le fotografie finivano spesso nel cassetto.

Molte di queste immagini che preconizzavano il neorealismo sono ora uscite dal cassetto e si possono vedere nelle sale del Fotomuseum di Winterthur.

swissinfo, Andrea Tognina

La mostra «Neorealismo. La nuova fotografia in Italia 1932-1960» al Fotomuseum di Winterthur rimarrà aperta fino al 18 novembre 2007.

Realizzata in collaborazione con il SEPIF (Studi e progetti in fotografia) di Torino e La Fábrica di Madrid, l’esposizione ospita le opere di 75 fotografi, tra cui alcuni nomi noti come Mario Giacomelli, Ugo Mulas, Gianni Berengo Gardin, Mario Dondero, il regista Alberto Lattuada e l’etnologo e pubblicista Fosco Maraini.

In occasione della mostra è uscita un’edizione tedesca del catalogo per i tipi dell’editore Christoph Merian. L’edizione italiana è uscita l’anno scorso presso le edizioni Admira.

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