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Una pillola con tanta storia

Farmacie di un tempo swissinfo.ch

A Basilea, sede delle maggiori aziende farmaceutiche del globo, si trova anche un piccolo museo in cui viene illustrato il passato della farmacia: un passato fatto di polveri di mummia e parti di scorpione, ma anche di teorie ancora presenti.

Fossimo nati tre o quattro secoli or sono, i nostri malanni sarebbero stati verosimilmente curati con strane combinazioni d’origine animale, vegetale, minerale, umana; oppure con amuleti e immagini sacre.

Al di là di questi aspetti folcloristici, visitare il Museo di storia della farmacia dell’università di Basilea permette però di conoscere meglio i periodi storici in cui la figura del farmacista era diversa da quella attuale.

Un mestiere che cambia

Il museo basilese nasce nel 1924 su iniziativa di Josef Anton Häfliger, farmacista e docente di storia della farmacia che decise di donare all’ateneo locale la propria collezione di oggetti legati alla sua professione.

«Häfliger aveva raccolto molte testimonianze per documentare le caratteristiche del suo mestiere, in un momento in cui quest’ultimo – soprattutto in relazione allo sviluppo della chimica e della farmaceutica – viveva cambiamenti cruciali. In particolare, da fabbricante di medicinali personalizzati il farmacista era diventato soprattutto un venditore-consigliere di prodotti definiti da regolamentazioni precise», spiega Corinne Eichenberger, biologa e collaboratrice del museo.

A partire dalla prima metà del XIX secolo, infatti, alcuni laboratori cominciarono a fornire estratti di piante medicinali per la produzione di alcaloidi e di farmaci sintetici. Da queste esperienze nacquero aziende – come la Hoffmann-La Roche – che si concentrarono sullo sviluppo e la produzione industriale dei medicamenti, forniti ai farmacisti già inscatolati e pronti all’uso.

Teorie diverse, medicine diverse

L’esposizione è situata in una dimora storica basilese, dove hanno soggiornato Erasmo da Rotterdam e soprattutto il medico naturalista Theophrast Bombast von Hohenheim: quest’ultimo, più conosciuto come Paracelso (1493-1541), contestò duramente la medicina e la farmacia del suo tempo, da lui giudicate troppo teoriche e distanti dall’esperienza diretta risultante dalla pratica e dal riferimento alla natura.

 

Secondo la teoria detta della segnatura, riaffermata proprio da Paracelso, lo stato patologico che colpisce una parte specifica del corpo può infatti essere curato usando ad esempio una pianta che riproduce nella forma o nel colore la parte dell’organismo interessata. L’interno di una noce, simile al cervello, gioverebbe a quest’ultimo. Analogamente, l’itterizia poteva essere trattata con lo zafferano. La coda dello scorpione era invece usata al fine di curare le ferite da taglio e lenire i dolori acuti.

 

Visitando le varie sale della mostra, il visitatore rimane colpito anche da altri rimedi utilizzati per migliorare la situazione del paziente. Per esempio i testicoli di cervo, “somministrati” per facilitare il parto e come afrodisiaco, oppure parti di mummia, come antidoto ai malanni dell’invecchiamento.

«Nel passato vi erano concezioni molto diverse da quelle attuali in merito alle proprietà curative di ciò che esiste in natura. Questo si traduceva anche nell’uso di metalli preziosi come l’oro, il cui valore era ritenuto indicatore di virtù taumaturgiche», spiega Eichenberger.

Corpo e anima

In quasi tutte le religioni, la guarigione e la protezione da gravi malattie erano considerate la manifestazione della potenza divina. Un altro aspetto illustrato nel museo è quindi la correlazione tra la cura del corpo e la cura dell’anima, attraverso reliquie e amuleti di ogni genere.

Ne sono l’esempio le immagini sacre da inghiottire, come i “bocconcini di San Biagio” per la gola, o quelli di Santa Lucia per i problemi agli occhi. Non mancano poi le rappresentazioni artistiche di Cosimo e Damiano, due gemelli di origine araba del III secolo, santi patroni di medici e farmacisti. Secondo la leggenda, uno dei loro più celebri interventi taumaturgici fu la sostituzione della gamba ulcerata di un paziente con quella di una persona morta di recente.

Professione globale

Un tempo, riassume Corinne Eichenberger, «il farmacista era una sorta di professione globale. Spesso chi svolgeva questo mestiere aveva anche un proprio giardino nel quale coltivava le erbe necessarie al suo lavoro».

A questo proposito, nel museo è possibile ammirare alcuni pregiati erbari del XVI, XVII e XVIII secolo, così come gli strumenti utilizzati dal farmacista nella sua pratica quotidiana. Il suo laboratorio era infatti simile a quello di un alchimista, con alambicchi, bilance di precisione, provette, pestelli e misurini.

Non mancano quindi nell’esposizione vari recipienti decorati di dimensioni diverse, in cui erano custoditi gli ingredienti per preparare infusi, decotti, tisane destinati a curare i problemi più disparati, dalla stitichezza alle difficoltà respiratorie.

«Nel corso dei secoli la farmacia ha continuato a svilupparsi, ma certe conoscenze fortunatamente non si sono perse. Basti pensare per esempio all’erba di San Giovanni, che viene prescritta ancora oggi», rileva Corinne Eichenberger.

Tra passato e futuro

Il museo permette pure di ripercorrere le tracce di tradizioni farmaceutiche nate nel passato ma proseguite fino ai giorni di nostri. È il caso dell’omeopatia, dottrina medica elaborata dal tedesco Samuel Hahnemann (1755-1843) e basata sul principio dei simili, cioè sul concetto che ogni malattia vada combattuta con agenti simili a quello che l’hanno provocata.

A Basilea – nella sezione dedicata alle farmacie di viaggio del passato – si può ad esempio osservare un’elegante valigetta a forma di libro per trasportare i preparati omeopatici, risalente al 1840.

«Ovviamente alcuni rimedi utilizzati nel passato – come il mercurio o l’arsenico – non sono più attuali, ma in altri settori ci sono elementi frutto di una tradizione secolare che possono ancora giovare. Sarebbe d’altronde interessante sapere in che modo tra 500 anni verranno valutate le nostre terapie più moderne, come la chemioterapia», conclude Eichenberger.

Nella Confederazione la presenza dei primi farmacisti è documentata a Basilea e a Ginevra attorno al 1270, mentre il primo ordinamento farmaceutico noto è il giuramento dei farmacisti di Basilea, emanato tra il 1309 e il 1321.

Con l’introduzione in Europa di nuove piante provenienti dall’America e il conseguente rinnovamento della botanica, nel Rinascimento furono poi realizzati diversi erbari e introdotti nuovi medicamenti.

Durante l’Illuminismo la terapia prese le distanze dai numerosi prodotti obsoleti che in Svizzera corrispondevano a due farmacopee, la basilese Pharmacopoea Helvetica (1771), e la Pharmacopoea Genevensis, apparsa intorno al 1780.

Nel XIX secolo, in seguito all’introduzione della farmacia nelle università, cambiò il profilo professionale del farmacista. Dal 1877, infatti, la legge federale sulla libera circolazione del personale medico prescrisse infatti una formazione accademica specifica per i farmacisti. Inoltre, nel 1965 la Pharmacopoea Helvetica prese il posto delle farmacopee cantonali.

Con i primi medicinali sintetici e la conseguente crescita dell’industria farmaceutica, dalla fine del XIX secolo i medicamenti già pronti sostituirono progressivamente quelli preparati artigianalmente.

Poco prima e poco dopo il 1900, le Università di Zurigo, Basilea, Berna, Losanna e Ginevra si dotarono di istituti farmaceutici.

All’inizio del XX secolo le prime donne cominciarono a studiare farmacia; la loro percentuale crebbe rapidamente raggiungendo il 50% intorno al 1940.

Fonte: Dizionario storico della Svizzera

Con 40% del volume totale delle esportazioni, l’industria farmaceutica rappresenta il principale settore esportatore della Confederazione.

Inoltre, la farmaceutica costituisce il ramo che ha saputo resistere meglio alla crisi, in quanto poco sensibile ai cicli congiunturali.

Nel 2010, i prodotti chimici e farmaceutici hanno generato un’eccedenza di 38 miliardi di franchi.

Stando alle cifre di novembre 2010, l’industria farmaceutica e medico-tecnica impiegava in Svizzera circa 61’000 persone.

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