La televisione svizzera per l’Italia

L’integrazione non passa dalla cucina

Un piatto di Fleischkäse con pasta e contorno di verdure
Un tipico piatto svizzero tedesco chiamato "Fleischkäse" con fusilli e contorno di verdure. Keystone / Martin Ruetschi

Mi sono trasferita nella Confederazione all'alba del nuovo millennio e tante cose all'inizio non mi tornavano. Ma è sul rituale della cucina e dei pasti, lo ammetto, che ci ho messo davvero degli anni per afferrare le sottili differenze fra l’Italia centrale e la Svizzera tedesca.

Le differenze grandi come un elefante, sono state chiare dal primo giorno. Anzitutto, gli orari. A Roma ero fin da bambina abituata che pranzavamo non prima dell’una e mezza, spesso passate le due. La cena? Dopo le otto e mezza, che diventavano facilmente le nove. A Berna se hai bambini o un posto di lavoro fisso pranzi “sul mezzogiorno”: attorno alle 12 chiudi il computer e butti la pasta. La cena si colloca fra le sei e mezza e le sette e mezza. Vi sembrerà poca cosa, ma sono un paio di ore di jet-lag con molti equivoci in agguato, se ti comporti da romana e abiti a un passo da Bärenplatz (piazza principale di Berna, ndr.).

“Osservavo allibita il grande e il piccolo mettere tutto nello stesso piatto; pasta, insalata, verdure, primo secondo antipasto contorno”.

Piatto unico, altro che primo secondo contorno, caffè e dolcetto!

Dove sono nata e cresciuta, poi, vige primo secondo contorno, caffè e dolcetto. Mia nonna Carmela mi ha nutrito così per una trentina d’anni. Mia mamma era già più moderna, perché a casa nostra il pasto quotidiano constava di un primo oppure un secondo con un paio di contorni, il dolce nei giorni di festa.

ritratto di serena tinari
Un’italiana a Berna – Rubrica semiseria di mediazione culturale Nata a Pescara e cresciuta a Roma, la giornalista Serena Tinari vive dal 2002 nella capitale svizzera. In questa serie, che fa seguito a quella di Gaëlle Courtens da Roma, ci propone il suo sguardo sulla realtà svizzera e su usi e costumi confederati. tvsvizzera

Fresca sposina, con figlio bernese di seconda mano che ancora andava alle elementari, ogni giorno mi ammazzavo fra le pignatte per preparare due pasti come pensavo fosse normale in una famiglia. Dunque almeno tre diverse pietanze, moltiplica per due. Apparecchiavo con piatto fondo e piano, perché da noi non esiste che mangi nello stesso coccio pasta al sugo e insalata.

Arrivavano a tavola i miei uomini, l’adulto e il bambino, ed immancabilmente esclamavano: “Wow Seri, quante cose hai cucinato!”. Mi dicevo: ma come sono gentili. Indi osservavo allibita il grande e il piccolo mettere tutto nello stesso piatto. Pasta, insalata, verdure, primo secondo antipasto contorno. Spostavano a lato il piatto intonso, il maritozzo me lo porgeva dicendo: “Ammore, questo no es necesario”. Abbozzavo una protesta: “Mica potete mangiare l’insalata con la pasta…” e la voce mi moriva in gola, perché i due avevano già fatto in modo che lattuga e fusilli si abbracciassero, felici inforchettavano l’una e gli altri alternati, e io ero felice che mangiassero con piacere, eppure nel profondo un pochino mi sentivo morire.

Non sapevo, tapina, che per loro sarebbe stato normale trovare una sola pietanza. Metti uno spezzatino (il celebre Geschnetzeltes) con contorno di fettuccine scotte. Oppure spaghetti bolliti a sfinimento conditi con “Bolognese” (da noi si chiama ragù).  Sono convinta che entrambe le mie nonne si rivolterebbero nella tomba a leggere queste righe. Da vive non ci facevano caso, trovavano adorabili i miei elvetici famigli che entusiasti spazzolavano tutto quello che arrivava in tavola.

Non si parla di cibo a tavola

Nell’Italia centrale dove sono nata e cresciuta, inoltre, adoriamo cucinare in gruppo e ci piace commentare quello che mangiamo. Per me è stato sempre normale, tanto che non me ne ero neanche accorta, che di caratteristica culinario-culturale si trattasse. Finché il maritozzo è sbottato. “Ma voi, scusate, perché a tavola parlate tutto il tempo di cibo?”. Al desco eravamo più d’un romano, fra amiche e parenti, e siamo rimasti con la forchetta a mezz’aria. Ovviamente ho negato tutto. E poi, ho cominciato ad osservare.

Lo dichiaro qui ufficialmente: ha ragione l’orso bernese. Già in fase di preparazione, ferve il dibattito. L’aglio lo schiacci in camicia, lo fai a fettine, lo triti o lo metti in padella sbucciato ma intero? Le patate quanto piccole le tagli per farle al forno e soprattutto, il sale in teglia oppure a fine cottura?

A tavola, l’analisi del dettaglio diventa un tormentone. Il grado di cottura della pasta – dura, duretta, un pochino scotta, scotta – va assolutamente dibattuto e il giudizio verte su quante decine di secondi hai tardato prima di scolarla. Besciamella e soffritto sono roba da scuole di pensiero, si discute a lungo su retrogusto, consistenza e aroma. Se siamo a casa nostra a Berna, inevitabilmente si finirà per concludere che la pasta è stata sul fuoco troppo a lungo (colpa dei fornelli elettrici?), il caffè è lento (sarà la durezza dell’acqua?) e la verdura è “povera di sale”. Mia mamma a quel punto ci ricorderà che secondo lei il sale svizzero “sala di meno”. Mentre si rumina, si faranno paragoni con le ricette di nonna Bruna e di zia Elsa.

La cosa incredibile è che non ci fermiamo mai. Lo facciamo all’inizio, durante e anche a fine pasto. Gli svizzeri-tedeschi guardano, ascoltano e non capiscono, ma sorridono cortesi. E infatti il vero trauma culturale a tavola, in una famiglia come la mia, è il momento dei complimenti. I bernesi dicono che era buono (isch fein gsi) e grazie mille per avere cucinato (merci viumau fürs Koche). Per noi romani, quel loro modo gentile ed essenziale suona come “non era granché, comunque grazie”. Perché da noi si dice: “Buonissimo!”. Indi si parte con gli aggettivi: croccante, originale, saporito, sorprendente.

E poi si apre il dibattito: Ma l’aglio, era in camicia?

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