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Trattative Stato-mafia, Dell’Utri assolto

Marcello Dell Utri circondato dai giornalisti
Assolto "per non aver commesso il fatto". Keystone / Alessandra Tarantino

La trattativa Stato-mafia per far cessare le stragi degli anni Novanta c’è stata, ma il fatto non costituisce reato. A sentenziarlo giovedì i giudici della Corte di appello di Palermo, che hanno assolto il senatore Marcello dell’Utri e gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subrani e Giuseppe De Donno, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. Il verdetto ribalta le pesanti condanne inflitte in primo grado nel 2018.


I tre militari dell’Arma escono dal processo “perché il fatto non costituisce reato”. Secondo la ricostruzione dei giudici, i carabinieri avrebbero sì intavolato un dialogo con le cosche tramite don Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, allo scopo di far cessare le stragi. Ma la loro intenzione non era farsi portavoce presso le istituzioni della minaccia di Cosa nostra. Agirono sì, dunque, ma a fin di bene. Una visione completamente opposta a quella della Corte d’Assise, secondo la quale i carabinieri con il loro comportamento finirono per rafforzare l’organizzazione criminale e indurla a pensare che lo Stato, pronto ad ascoltare le sue istanze, stava per capitolare.

L’ex senatore, accusato di esser stato, dopo il 1993, la cinghia di trasmissione tra la mafia e le istituzioni e di aver fatto arrivare la minaccia dei clan al governo guidato da Silvio Berlusconi, chiude invece la sua vicenda processuale “per non aver commesso il fatto”. Al contrario, la Corte ha confermato la condanna per il medico mafioso Nino Cinà, che trasmise il famoso papello, lista dei desiderata dei mafiosi, e ridotto di un anno la pena del boss Leoluca Bagarella, rei di avere minacciato lo stato. Dichiarate invece prescritte le accuse al pentito Giovanni Brusca.

Occorre attendere le motivazioni della sentenza, ma il verdetto dei giudici di Palermo destruttura e mette in dubbio l’impianto accusatorio del pool di procuratori dell’antimafia costruito in decenni di indagini.

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Una lunga storia giudiziaria

La storia sarebbe cominciata dopo l’uccisione dell’eurodeputato Salvo Lima nel marzo 1992 e sarebbe entrata nel vivo tra l’attentato a Giovanni Falcone e la strage di via D’Amelio in cui morì Paolo Borsellino. In quella stagione sarebbero cominciati gli incontri riservati del comandante del Ros, Mario Mori, e del suo braccio destro

Giuseppe De Donno con Vito Ciancimino. Per la Procura di Palermo da lì sarebbe partita la “trattativa” tra Stato e mafia.

No, hanno sempre sostenuto i due ufficiali: quella era un’attività investigativa, che trova ora riscontro nella sentenza d’appello, con cui si mirava a fermare le stragi e a catturare Totò Riina. Le posizioni non sono mai cambiate sin da quando – era il 2008 – il caso è diventato un fascicolo giudiziario: 13 anni di indagini sfociate nell’assoluzione di investigatori e politici.

Anche grazie alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino (poi giudicato inattendibile in molte sue ricostruzioni), solo nove anni fa, il 29 ottobre 2012, la vicenda è approdata in dibattimento con l’udienza preliminare conclusa con il rinvio a giudizio di Riina e del cognato Leoluca Bagarella, di Bernardo Provenzano, Mori, De Donno, Massimo Ciancimino, Marcello Dell’Utri indicato come il tessitore politico della “trattativa”, Giovanni Brusca, Antonino Cinà medico di Riina e postino del “papello” con le richieste dei boss, Antonio Subranni all’epoca capo di Mori. A giudizio era finito anche l’ex ministro Nicola Mancino ma solo per falsa testimonianza. Sarà assolto. Tra gli accusati c’era anche l’ex ministro Calogero Mannino dal quale tutto sarebbe partito: per l’accusa avrebbe innescato proprio lui la “trattativa” dopo avere ricevuto pesanti minacce dalla mafia. Mannino è però uscito di scena: ha scelto il rito abbreviato ed è stato assolto definitivamente in Cassazione l’11 dicembre 2020. È una sentenza che ha messo in discussione l’impianto del processo, come dicono ora anche i giudici di appello.

In primo grado il dibattimento, presieduto da Alfredo Montalto, era cominciato il 27 maggio 2013 e si era concluso con condanne molto severe il 20 aprile 2018, quando Riina e Provenzano erano già morti. La pena più grave – ben 28 anni – era andata a Bagarella. E poi 12 anni per Mori, Subranni, Dell’Utri e Cinà, 8 per De Donno. La condanna a 8 anni di Ciancimino (calunnia) è già prescritta. Prescritte anche le

accuse a Brusca. Per i giudici di primo grado la “trattativa” dunque ci fu ed era illegittima perché protagonisti erano uomini delle istituzioni e soggetti che “rappresentavano l’intera associazione mafiosa”. Su questa tesi accusa e difesa hanno ingaggiato nel giudizio di appello, cominciato il 29 aprile 2019, un confronto molto serrato. E stavolta il verdetto è ribaltato. C’erano le minacce della mafia ma non la “trattativa”.

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