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Terrorismo, il dolore comune di vittime e carnefici

Da sinistra, Agnese Moro, Franco Bonisoli, Marco Bazzi (moderatore), Adriana Faranda e Giorgio Bazzega.
I partecipanti all'incontro (da sinistra) Agnese Moro, Franco Bonisoli, Marco Bazzi (moderatore), Adriana Faranda e Giorgio Bazzega. tvsvizzera

Di giustizia riparativa e terrorismo si è discusso sabato al Palacongressi di Lugano con alcuni dei protagonisti degli "anni di piombo" che hanno illustrato il loro cammino comune di riconciliazione ed elaborazione del dolore attraverso il dialogo tra vittime e condannati.

Un percorso promosso oltre una decina di anni fa dal gesuita Guido Bertagna che ha messo in contatto, tra gli altri, Agnese Moro, figlia dello statista sequestrato e ucciso nel maggio 1978 dalle Brigate Rosse e Franco Bonisoli, che faceva parte del commando autore della strage di Via Fani e Adriana Faranda, personaggio di spicco della colonna romana che orchestrò l’operazione.

“Ero un insetto in una goccia di ambra”

“Il dialogo apre la possibilità di portare questo peso”, ha osservato Agnese Moro che ha raccontato il suo difficile cammino e le implicazioni della sua scelta: “Ho esitato perché partecipare a queste attività è anche un modo per rompere con il gruppo delle vittime del terrorismo e avevo il timore che la mia famiglia non fosse d’accordo”.

Ma così facendo ha lasciato alle spalle la “dittatura del passato”, durante la quale si sentiva prigioniera come “un insetto in una goccia di ambra” che ti impedisce di parlare e di trovare qualcuno disposto ad ascoltare il dramma del rapimento di suo padre “che rivivevo ogni giorno”. Ora però, ha continuato Agnese Moro, “vedo solo persone anziane (alludendo a Faranda e Bonisoli, ndr) e non i mostri della mia immaginazione: sono uscita da un mondo di fantasmi per entrare in un mondo reale” fatto di umanità.

Un’umanità che le consente adesso di scoprire che “c’è un dolore crudele, peggiore del mio e difficile da gestire” e quel dolore che li accomuna, da posizioni opposte, li fa incontrare. “Devo a loro la possibilità di proseguire nel mio difficile cammino”, ha affermato la figlia dell’ex presidente della Democrazia Cristiana, ispiratore del controverso compromesso tra mondo cattolico e comunista.

Certo, ha continuato, “quando sento dire ‘Tuo padre è stato ammazzato per amore’ (per i diseredati e gli oppressi, ndr), le mie orecchie si ribellano” ma d’altra parte nessuno di loro era obbligato a questo percorso di riconciliazione, avevano già saldato i conti con la giustizia. “Volevo sapere se la loro vita è tornata buona, se quel male non è una cosa definitiva”.

“Non le interessava il mio passato ma come ero ora”

Da parte sua Franco Bonisoli, che quella mattina del 16 marzo 1978 in Via Fani sparò con la mitraglietta sugli occupanti dell’Alfetta della scorta di Aldo Moro, dice di essere stato colpito dall’atteggiamento accogliente della figlia, che chiedeva del suo presente invece che dell’agguato nel quartiere Trionfale di Roma.

“Mi disse che non le interessava il mio passato ma la persona che ero in quel momento, ci guardavamo alla stessa altezza all’interno del gruppo” di mediazione dove il riconoscimento era reciproco. In un certo senso, ha precisato Franco Bonisoli, era più facile in carcere dove i brigatisti potevano far valere “una quota di vittimismo”, soprattutto in quelli speciali dove la durezza del trattamento li faceva consolidare i loro convincimenti di opposizione al sistema.

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Ben più difficile quando invece ci si trova nella vita reale, davanti alle vittime delle loro azioni, giustificate con astratti e sterili ragionamenti intrisi di ideologia.  Da quell’incontro è nata “una profonda amicizia che mi metteva in imbarazzo e difficoltà”.

Una responsabilità attiva che guarda al futuro

Concetti ripresi da Adriana Faranda – che insieme a Valerio Morucci guidava la colonna romana durante il sequestro Moro – che ha raccontato le sue difficoltà iniziali: “Ho dovuto riflettere, anche per me sarebbe stato un ritorno al passato che mi sconsigliavano tutti, ma dovevo chiudere il cerchio”. Per l’ex terrorista era fondamentale recuperare il filo delle sue relazioni umane che la clandestinità e il carcere avevano interrotto. “Non era solo un incontro ma un tragitto, un percorso di ricerca continua” verso un senso di giustizia diversa da quella offerta dallo Stato.

Non è possibile riparare a determinate scelte fatte (e restituire le persone che non ci sono più), rileva Adriana Faranda, ma si può ricostruire le relazioni con chi è rimasto, i familiari delle vittime, assumendosi “una responsabilità diversa, una responsabilità attiva che guarda al futuro”. E che sfocia anche in amicizia, che può sembrare “una parola inappropriata” ma che “raramente ho provato nel passato”.

Sul fronte opposto si trovava Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo Sergio Bazzega che venne ucciso il 15 dicembre 1976 durante il tentativo di cattura di Walter Alasia, che si trovava a casa dei genitori a Sesto San Giovanni. “Sentivo il monopolio del dolore”, ha detto il mediatore penale, che all’epoca dei fatti aveva tre anni, e che quando seppe della scarcerazione di Curcio, ammette, ha nutrito pulsioni di vendetta. La rabbia e il rancore – per il “tradimento dello Stato” e il male provocatogli dalla violenza politica di quegli anni – stavano condizionando la sua esistenza, costellata di varie dipendenze.

Poi l’incontro con i terroristi, nell’ambito del percorso di giustizia riparativa, che si sono assunti espressamente le loro responsabilità anche nei suoi confronti. “Alla prima riunione ho esordito dicendo: ‘Vi voglio ammazzare tutti e ho qui la lista’, ma ho trovato da parte loro accoglienza vera. Era la prima volta ed è stata l’unica cosa che mi ha cambiato la vita”, ha riferito Giorgio Bazzega, che ha poi lasciato il lavoro di pubblicitario per intraprendere la professione di mediatore penale. In questo contesto, il perdono attribuito agli ex terroristi che partecipano a questi progetti non è altro che “il riconoscimento dell’umanità di chi si ha di fronte”.

Da ultimo l’autocritica di Adriana Faranda sull’idea delle BR di disarticolare lo Stato attraverso azioni terroristiche, che nei loro fini non dovevano colpire nel mucchio ma obiettivi mirati. “Ho poi scoperto che la realtà non era questo, avevamo comunque diffuso paura tra le persone e condizionato la vita politica e sociale di tutti”. Ma resta il fatto che di quei fatti non si può parlare serenamente in Italia, “quel periodo resta tabù”.

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