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Il “motore immobile” della migrazione

Dipinto del pittore ticinese dell'Ottocento Giovanni Antonio Vanoni: "Caduta in montagna", 1859 museovalmaggia.ch

Colpite da una forte emigrazione maschile, nella metà dell'Ottocento le valli della Svizzera italiana si sono trasformate in una vera e propria terra di donne.

In assenza dei mariti, le donne hanno assunto un ruolo centrale nelle comunità alpine, sobbarcandosi dei lavori più duri e gestendo gli affari correnti.

Il binomio donne e montagna non ha avuto vita facile nella storia, schiacciato da figure maschili spesso mitizzate come lo scalatore, il contrabbandiere o l’emigrante. Del loro passaggio resta soltanto qualche traccia sporadica, mediata dallo sguardo di coloro che nei villaggi detenevano il potere, amministravano gli archivi e – di fatto – ne determinavano la memoria.

Ospiti silenziose di un mondo prettamente maschile, il loro ruolo viene spesso percepito e presentato come accessorio: un sostegno importante – ma quantomeno secondario – alle attività svolte dagli uomini. A prevalere è l’immagine stereotipata di una contadina curva sotto il peso della gerla.

Le ricerche degli ultimi anni hanno tuttavia mostrato una realtà più variegata. Il ruolo delle donne non si limitava a quello di “bestie da soma”, per usare un’espressione ricorrente nelle testimonianze dell’epoca. Con spirito di sacrificio, forza d’animo e iniziativa, hanno colmato il vuoto lasciato dall’esodo maschile.

«Le donne hanno pagato il prezzo più caro dell’emigrazione», sottolinea Giorgio Cheda, storico ed esperto di emigrazione ticinese.

Da contadine a imprenditrici

L’emigrazione stagionale o pluriannuale ha provocato un profondo squilibrio nelle comunità alpine di fine dell’Ottocento.

Nel 1870, rileva Giorgio Cheda, lo scarto tra i sessi è notevole e in certi comuni il numero delle donne è doppio rispetto a quello degli uomini. A Corippo, in Val Verzasca, si contavano ad esempio 146 uomini e 148 donne nel 1850; 20 anni più tardi la proporzione era di 54 a 108.

«L’assenza degli uomini ha costretto le donne a occuparsi di tutta una serie di lavori, a volte anche estremamente gravosi», spiega la storica Marina Cavallera, professore all’Università degli studi di Milano.

Alla donna spettava il compito di dirigere i lavori nei campi, di custodire il bestiame sugli alpeggi, di presidiare i beni di famiglia e di prendersi cura dei figli. «Non soltanto partecipavano attivamente alla vita economica del villaggio, come contadine, balie o operaie, ma spesso assumevano anche incarichi innovativi a livello imprenditoriale o culturale». Sono diverse le figure femminili che lasciarono i campi per dirigere piccole imprese o che investirono in proprietà il denaro proveniente dai padri o dai mariti emigrati oltreoceano.

Malgrado la lontananza, infatti, gli uomini continuavano a far capo alle donne non solo per ragioni affettive, ma anche per questioni economiche e sociali. «Colei che rimaneva al paese – annota Marina Cavallera – si trasformava in un “motore immobile” attorno a cui ruotava la vita quotidiana e che permetteva agli emigrati di trovare sempre una nuova ragione per far ritorno a casa».

Spazi di emancipazione

Paradossalmente, la montagna ha dunque offerto alle donne «la possibilità di sperimentare, prima che altrove, un’inconsueta autonomia, un margine di manovra superiore rispetto a quanto accadeva nelle città», spiega Nelly Valsangiacomo, professore assistente all’Università di Losanna.

«Assumendo funzioni fondamentali per la continuità e il sostentamento della famiglia – prosegue la storica ticinese – le donne hanno contribuito in modo determinante alla conservazione della civiltà alpina, quali depositarie di identità, storia e tradizioni».

D’altronde erano loro a prendere le decisioni chiave sull’istruzione e la socializzazione delle generazioni più giovani. Un’attività – se si pensa ad esempio all’insegnamento o alla scrittura – che si trasformava spesso in una missione di emancipazione in una società rurale dove l’analfabetismo era più la norma che l’eccezione.

Una storia ancora da scrivere

La posizione centrale delle donne all’interno delle comunità alpine, e la loro relativa libertà d’azione, non deve tuttavia trarre in inganno, sottolinea la storica e docente Susanna Castelletti. Le valli di Ticino e Grigioni erano un mondo prettamente bipolare, in cui la suddivisione dei compiti era netta.

«Soltanto gli uomini erano dotati di qualifiche professionali: potevano quindi abbandonare la terra natale alla ricerca di nuove opportunità. Le donne, al contrario, non possedevano quasi nulla e rimanevano profondamente legate al loro territorio».

Formalmente, le donne non potevano disporre di denaro proprio e l’esercizio di qualsiasi attività necessitava del permesso di padri e mariti. In pratica, tuttavia, la partenza degli uomini aveva portato a una gestione femminile della vita economica, seppur sotto la tutela del parentado.

L’iniziativa, il coraggio e la perseveranza di migliaia di donne hanno così mantenuto in vita le valli di Ticino, Grigioni e dei villaggi della vicina Valtellina. La carenza di forza lavoro è stata compensata dalla capacità di molte donne di sfruttare al meglio le risorse degli emigranti. Custodi e fonti di memoria, attraverso l’oralità e la scrittura, le donne hanno portato fino a noi le tracce di un mondo tuttora sconosciuto.

La storia delle donne nelle nostre valli è una storia di sofferenza e amore, una storia che ognuno di noi porta con sé, ma ancora tutta da scrivere.

Diverse testimonianze dell’epoca, così come gli ex voto di Giovanni Antonio Vanoni, evidenziano le difficili condizioni nelle quali vivevano le donne nelle valli della Svizzera italiana a cavallo tra Ottocento e Novecento.

«Vedemmo (…) giovani donne prossime al parto che soccombevano sotto un peso quasi doppio, e madri senza più forze sembravano trascinare alla loro tomba quell’uva così gradevole. In mezzo a quella gente neppure un uomo che dia una mano», scriveva la poetessa danese Federica Brunn.

Sui documenti ufficiali si legge che «per le femmine non v’ha scuola né istruzione pubblica. Nascono, vivono e muoiono bestie a due gambe».

Significativo anche il resoconto del medico della Lavizzara, Angelo Pometta, che nel 1862 constatava che le giovani spose di Brontallo (Valle Maggia) mettevano quasi sempre a repentaglio la loro vita e quella del nascituro al momento del parto (fonte: Giorgio Cheda, L’emigrazione ticinese in California). Costrette a portare pesanti fardelli già dalla tenera età, molte donne presentavano infatti gravi malformazioni delle ossa del bacino.

«…costretti gli abitanti, sino da fanciulli, a portare tuttoché loro abbisogna sulle loro spalle, e sempre per salite o per discese, esercitano così una continua pressione sull’osso sacro che impedendone il regolare sviluppo posteriormente, accorciasi il diametro sacro-pubico del bacino: da qui la suddetta difficoltà ad onta che si abbia a che fare con donne tutt’altro che rachitiche».

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