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Svizzera esortata a fare di più dopo il rimpatrio di due minori dalla Siria

Gruppo di donne e bambini in quello che appare come un campo profughi in zona desertica
Gli esperti delle Nazioni Unite riferiscono che le condizioni di vita nei campi di Roj e Al Hol (foto), per le persone sospettate di legami con il terrorismo e le loro famiglie, sono precarie: scarseggiano cibo, acqua pulita, medicine e ripari adeguati, e la sicurezza è carente. Copyright 2021 The Associated Press. All Rights Reserved.

Gli esperti in diritti umani hanno salutato positivamente il rimpatrio di due minorenni svizzere da un campo del nord-est della Siria la scorsa settimana. Ma ritengono che Berna debba occuparsi di più dei presunti combattenti elvetici tuttora detenuti nell'area del conflitto siro-iracheno.

Le due ragazzine, di 9 e 15 anni, sono state riaccompagnate in Svizzera senza la loro madre, cui è stata revocata la cittadinanza elvetica dopo che aveva portato con sé le figlie in Siria nel 2016 con l’intenzione di unirsi all’organizzazione terroristica Stato islamico (Isis). Una terza figlia, la più piccola, resta con lei in uno dei due campi di internamento controllati dai curdi destinati alle persone sospettate di legami con l’Isis. Campi le cui condizioni umanitarie sono state definite disastrose dalle Nazioni Unite.

“Naturalmente saluto i recenti sviluppi, ma credo che consentire ai cittadini svizzeri di rientrare in Svizzera sia davvero il minimo che si possa fare”, commenta l’esperto elvetico Nils Melzer, relatore speciale dell’Onu sulla tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti.

Fionnuala Ní Aoláin, irlandese relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla tutela dei diritti umani nella lotta al terrorismo, ha pure accolto positivamente il rientro delle giovani ma ha espresso preoccupazione per il mancato rimpatrio della madre e il fatto che le sia stata revocata nazionalità. “Gli Stati dovrebbero sempre mettere i minori al centro di ogni considerazione e contribuire a garantire i loro diritti, anche quando gli interessi del bambino sono in conflitto con quelli della sicurezza percepita dello Stato”, spiega Ní Aoláin a SWI swissinfo.

I due relatori fanno parte di un gruppo di esperti Onu che lo scorso aprile ha scrittoCollegamento esterno al Consiglio federale (governo) raccomandando il rientro in Svizzera delle ragazzine per motivi umanitari. Fondamentali sono state anche la pressione su Berna da parte dei padri delle sorellastre, residenti a Ginevra, e le trattative con la madre, che rifiutava di lasciarle partire.

Marco Sassoli, professore di diritto internazionale all’Università di Ginevra, definisce il ritorno delle due minori come “una buona notizia, ma un passo insufficiente”.

“L’impressione è che solo i cittadini che si comportano bene debbano essere rimpatriati”, dichiara a SWI swissinfo.ch, precisando che invece la Svizzera dovrebbe assumersi la responsabilità per tutti i connazionali, anche fossero presunti criminali.

Tre minorenni -su un totale stimato di 15 cittadini elvetici tra uomini, donne e bambini- restano detenuti nel nord-est della Siria, secondo fonti del Servizio attività informative della Confederazione (SIC). Dal 2019, la politica svizzera è di dare priorità alla sicurezza interna, perciò il Governo non rimpatria attivamente adulti che abbiano lasciato il Paese per unirsi a gruppi terroristici e con i bambini lo fa solo su base individuale.

Rischi umanitari e di sicurezza

Le sorelline di Ginevra sono le prime cittadine svizzere rimpatriate dai campi. Poiché le autorità curde non permettono di separare i figli dalle madri se non con il consenso di queste ultime, il Dipartimento federale degli affari esteri ha messo in atto una strategia di diversi mesi per convincere la donna a lasciar partire le figlie, riferisce il segretario di Stato supplente e capo della Direzione consolare del DFAE Johannes Matyassy. Ciò che ha incluso contatti telefonici regolari tra le giovani e i loro padri, e visite di funzionari consolari elvetici al campo di Roj, dov’erano internate.

“Credo che consentire ai cittadini svizzeri di rientrare in Svizzera sia davvero il minimo che si possa fare.”

Nils Melzer, relatore speciale dell’Onu

Secondo Melzer e altri esperti Onu, il rimpatrio ha messo le ragazze al riparo da potenziali violazioni dei diritti umani in “squallidi” campi. Lasciare che le persone vi restino internate, sostiene inoltre Melzer, può accrescere i rischi per la sicurezza nazionale nel lungo termine, perché è più probabile che i detenuti vi si radicalizzino e restino tali.

Matyassy ritiene però che le condizioni di vita a Roj fossero relativamente buone per la famiglia -con acqua corrente, energia elettrica e accesso a cure mediche- e che finora nulla lascia pensare che le piccole si siano radicalizzate. Entrambe erano in buona salute (la più grande è guarita dalle ferite causate da una granata) e seguiranno un percorso di reintegrazione, ha aggiunto.

Piuttosto che considerare i minori una minaccia per la sicurezza, osserva il legale dei padri delle ragazze Olivier Peter, “dobbiamo ricordare che questi bambini sono vittime e sono stati esposti a traumi”.

Oltre alle due romande, altri due minorenni svizzeri hanno lasciato quest’anno il nord-est della Siria. In luglio, due fratelli di 4 e 5 anni figli di un confederato che si era arruolato nell’Isis sono stati rimpatriati in Belgio con la loro madre belga.

E gli adulti?

Il ritorno a Ginevra delle due ragazzine ha riportato l’attenzione sul destino dei detenuti adulti. Melzer rileva che nel diritto svizzero ci sono solo due possibili pene per chi fiancheggia un’organizzazione riconosciuta come terroristica: la privazione della libertà o una multa.

“Non esistono sanzioni in cui, sostanzialmente, esponiamo le persone a gravi violazioni dei diritti umani per qualcosa che hanno fatto”, chiarisce. “Non è legalmente ammissibile”.

“L’impressione è che solo i cittadini che si comportano bene debbano essere rimpatriati.”

Marco Sassoli, professore di diritto internazionale all’Università di Ginevra

Tutti i cittadini svizzeri dovrebbero essere riportati in patria e, se è il caso, processati, dice, “e se non ci sono prove sufficienti per incriminarli ma rappresentano lo stesso una minaccia per la sicurezza interna, credo che le autorità svizzere debbano darsi direttive e leggi adatte ad affrontare il problema”.

La Svizzera è uno della sessantina di Paesi che contano un totale stimato di 12’000 cittadini (esclusi iracheni e siriani) detenuti nei campi. Alcuni, come il Belgio, hanno rimpatriato attivamente madri e figli, ponendo in detenzione gli adulti che al loro arrivo rappresentavano un rischio per la sicurezza.

Sostegno ai processi sul posto

La Svizzera, invece, ha dichiarato di preferire che i suoi cittadini siano perseguiti nel luogo di detenzione.

“L’argomento spesso avanzato da Berna è che la giustizia deve essere vicina alle vittime”, spiega il professor Sassoli. Ma acquisire le prove di un crimine commesso in Iraq o in regioni della Siria controllate dal regime è difficile per un giudice curdo nella Siria settentrionale quanto lo sarebbe per un magistrato svizzero in Svizzera, sostiene.

Dopo che le forze curde hanno preso il controllo del nord-est della Siria e posto in detenzione i sospetti combattenti dell’Isis nel 2019, alcuni Paesi europei guidati dalla Svezia hanno discussoCollegamento esterno la possibilità che a giudicare i cosiddetti foreign fighters sia un tribunale internazionale. La Svizzera ha preso parte a una conferenza sul tema nel giugno del 2019, ma da allora non ci sono stati progressi, riferisce un portavoce del DFAE a SWI swissinfo.ch.

L’autoproclamata autorità curda ha in effetti iniziato a sottoporre a giudizio alcuni combattenti dell’Isis, ma manca di risorse e sostegno internazionale: non è internazionalmente riconosciuta. Come conferma un portavoce del ministero degli esteri, la stessa Svizzera non offre assistenza giudiziaria ad “attori non governativi”. Finora, nessun cittadino elvetico è stato processato in Siria nordorientale.

“Nessuno Stato vuole perseguire penalmente i propri cittadini nel proprio Paese, benché questo sia chiaramente possibile nell’ambito del diritto svizzero e internazionale”, conclude Sassoli. “Se proprio non vogliono riprendersi i loro cittadini, dovrebbero almeno aiutare le autorità curde nel nord della Siria a migliorare le loro procedure giudiziarie”.

Per ora, la Svizzera si attiene alla sua politica di non rimpatriare alcun adulto. Anche per i tre minorenni che rimangono in Siria, il DFAE non ha attualmente alcun piano di rimpatrio.

Traduzione dall’inglese di Rino Scarcelli

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