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L’Ue mostra il suo nuovo volto

Jean-Claude Juncker e Doris Leuthard si stringono la mano
Quando tutto sembrava sereno: il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e la presidente della Confederazione Doris Leuthard si sono incontrati a Berna lo scorso 23 novmbre. © KEYSTONE / PETER KLAUNZER

La Svizzera si trova di fronte a una nuova Unione europea. Non si tratta più dell’apparato burocratico impegnato prevalentemente a gestire le proprie questioni. Il piccolo paese alpino deve ora prepararsi ad affrontare il nuovo volto mostrato da Bruxelles.

La politica estera è anche politica interna. Ciò vale in particolare per l’Ue.

La decisione di Bruxelles di autorizzare l’accesso della borsa svizzera ai mercati finanziari europei soltanto per un anno ha molto a che vedere con lo stato dell’Ue. Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker lo sa bene: se vuole tenere unita l’Europa, la sola valuta non basta. Ha bisogno anche di volontà.

Juncker sta rimodellando il progetto europeo – a cui molti hanno partecipato soltanto per interesse proprio – in un’entità fondata sulla volontà (“Willensnation”): chi vuole esserne membro deve impegnarsi a rispettare tutti i valori dell’Ue. Un messaggio che la Commissione europea ha inviato questa settimana alla Polonia, in quello che è stato uno storico gesto. Una severità che Juncker ha mostrato anche nei confronti della Gran Bretagna. «Dovete pagare», ha detto una settimana fa a Bruxelles, in riferimento ai 45 miliardi di euro che Juncker si attende da Londra per saldare il conto del divorzio legato alla Brexit.

Ora lo stesso tono è utilizzato anche con la Svizzera.

Divorziare fa male. È il messaggio di Juncker a tutti coloro che flirtano con il nazionalismo, e ce ne sono parecchi.

La politica interna è anche politica estera. Ciò vale in particolare per la Svizzera.

Altri sviluppi

Nella Confederazione ci sono un governo e un corpo diplomatico che da anni annunciano, con generoso pragmatismo, le loro buone intenzioni a Bruxelles. Al contempo, in patria, presentano ogni cenno di assenso dell’Ue come una vittoria, come un segno che con Bruxelles si può discutere sullo stesso piano.

Ma poi c’è il popolo. Sin dall’inizio, ha messo la Svizzera in scacco matto, come mostrano i risultati della votazione del 1992 sull’adesione allo Spazio economico europeo (bocciata al 50,3%) e di quella del 2014 sulla limitazione dell’immigrazione di massa (accettata al 50,3%). Metà della popolazione elvetica vuole più cooperazione con l’Europa, metà auspica invece un allontanamento. Da qui l’interrogativo per il governo svizzero: è possibile difendere i propri interessi in maniera credibile verso l’esterno, quando si è confrontati con un popolo così polarizzato?

Il governo federale e il parlamento sono stati ben contenti che l’Ue si fosse occupata per così tanto tempo dei suoi problemi interni quali la Grecia, i migranti e la Brexit. Dopo l’accettazione dell’iniziativa sull’immigrazione di massa quattro anni fa, le autorità elvetiche potevano rassicurarsi ascoltando l’unico messaggio che giungeva da Bruxelles: «Per il momento abbiamo altre priorità».

Mentre l’Ue lottava su numerosi fronti, in Svizzera regnava la calma, sebbene ci fosse una tensione latente. Stavamo ad ascoltare il gigante che respirava, chiedendo agli esperti, per lo più professori di diritto europeo, di interpretarlo. Di fronte alla potenza economica dell’Ue, la Svizzera è infatti soltanto un nano. Il prodotto interno lordo dell’Ue è 26 volte più grande di quello elvetico. Se l’Unione fosse un essere umano, la Svizzera avrebbe la lunghezza del suo dito indice.

Tuttavia, mai un membro dell’esecutivo svizzero ha avuto il coraggio di dire apertamente la verità: il tempo avvantaggia i potenti e quindi l’Ue. Tutte le indicazioni in questo senso erano però timide e discrete. L’unica ad essere stata all’erta è l’Unione democratica di centro, che grazie alla sua ferma opposizione all’Europa è diventata il partito più grande della Svizzera, a scapito di tutti gli altri.

Dal profilo politico si potrebbe deridere e a volte anche compatire l’Ue, in particolare se si parte dal punto di vista della democrazia diretta elvetica. Dieci anni fa, l’Ue era associata a burocrazia e lentezza. L’Unione era impegnata a costruirsi e si rivolgeva verso l’interno.

Ora si basa invece su sistema centralizzato consolidato che mostra i suoi vantaggi: la politica estera è condotta con rigidità, l’Unione è diventata sorprendentemente agile ed è abbastanza sicura di sé da non prendere in considerazione il miliardo e 300 milioni di franchi della Svizzera. Il cosiddetto “miliardo di coesione” corrisponde allo 0,4% del contributo che l’Ue ha messo a disposizione per il salvataggio della Grecia (300 miliardi di franchi) e allo 0,3% del contributo che Bruxelles investe nell’aiuto ai Paesi dell’Europa dell’est (410 miliardi di franchi, come ha spiegato questa settimana l’ambasciatore europeo Michael Matthiessen).

La guerra commerciale con gli Stati Uniti, le dispute fiscali con le multinazionali che operano su scala globale e la costante lotta per l’equilibrio interno: nulla di tutto questo sembra aver danneggiato l’Ue, che ha tratto insegnamenti da ogni difficoltà. L’Unione è così diventata più snella, più intelligente e più sicura di sé.

Al momento della costituzione dell’Ue, la Svizzera stava ancora riscuotendo i pedaggi stradali. Il transito alpino è sempre stato il miglior atout del paese al momento di trattare con le potenze al di là delle frontiere nazionali. Parallelamente alla via solitaria intrapresa nel 1992, la Svizzera ha deciso di costruire le nuove trasversali ferroviarie alpine. Con le gallerie attraverso le Alpi, Berna intendeva rafforzare la sua posizione negoziale in Europa. Il nano pensava che questa via avrebbe portato al gigante e che l’Ue sarebbe stata felice di discutere.

Ma la priorità si è spostata, dalle merci alla finanza. Nel 2016, le esportazioni elvetiche verso l’Ue hanno totalizzato 113 miliardi di franchi, le importazioni 125 miliardi. I valori scambiati alla Borsa svizzera con partner europei sono invece molto più importanti e ammontano a circa 400 miliardi di franchi.

Jean-Claude Juncker è stato ministro delle finanze del suo paese, il Lussemburgo, una nazione di banche come la Svizzera. È l’uomo che in patria ha abolito il segreto bancario. È stato a capo dell’Eurogruppo, il centro di coordinamento che riunisce i ministri europei delle finanze. Juncker conosce fin troppo bene il punto debole del piccolo Stato nel cuore dell’Europa: la borsa.

Traduzione dal tedesco di Luigi Jorio

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