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Mercenari al soldo della controrivoluzione

Verso il 1850, circa 7'000 soldati svizzeri erano al servizio del Re di Napoli ilportaledelsud.org

Per secoli, re e imperatori di tutta Europa hanno fatto capo ai mercenari confederati, che hanno svolto un ruolo importante e non sempre glorioso anche nella repressione dei moti risorgimentali. Una storia conclusasi nel 1859 a Napoli con lo scioglimento degli ultimi reggimenti svizzeri.

Oggi a testimoniare della lunga storia di migrazione militare elvetica sono rimaste sole le guardie svizzere, il minuscolo «esercito del Vaticano» considerato più che altro un’istituzione essenzialmente folcloristica.

Eppure per diversi secoli, gli svizzeri sono emigrati soprattutto per fare i soldati. Tra il 1400 e la metà del XIX secolo è stato calcolato che più di due milioni di svizzeri si sono arruolati come mercenari al soldo di potenze straniere.

A fianco dei Borboni e del Papa

L’Italia è spesso stata terra d’elezione per questi soldati di ventura. Durante il Risorgimento, i reparti svizzeri hanno sovente svolto un ruolo di primo piano nella repressione dei moti insurrezionali.

Nel maggio del 1848, ad esempio, i quattro reggimenti al servizio di Ferdinando II delle Due Sicilie (arruolati grazie alle capitolazioni stipulate con diversi cantoni svizzeri tra il 1823 e il 1828) riescono in poche ore a soffocare nel sangue la rivolta scoppiata a Napoli. Malgrado siano mercenari, apparentemente la loro lealtà nei confronti del sovrano napoletano è ferrea, tanto che l’ambasciatore britannico a Napoli scrive che «le uniche truppe sulle quali ci sia da fare affidamento sono quelle svizzere».

È anche vero, però, che i circa 7’000 soldati svizzeri godono di un trattamento ben migliore di quello riservato ai reparti napoletani. Un capitano, ad esempio, percepisce quasi il doppio rispetto a un parigrado napoletano.

Gli avvenimenti di Napoli spingono la Dieta federale (l’assemblea dei rappresentanti dei 22 cantoni sostituita nel 1848 dal Consiglio degli Stati) ad inviare sul posto un rappresentante per indagare su quanto successo. La relazione presentata da Stefano Franscini contribuisce ad infliggere un primo duro colpo al mercenariato, considerato ormai un arcaismo in un periodo contraddistinto dall’affermazione dei sentimenti nazionali.

La nuova Costituzione federale del 1848 vieta così la stipulazione di nuove capitolazioni militari (vedi di fianco), senza tuttavia abolire quelle già sottoscritte né proibire gli arruolamenti individuali.

I fatti di Perugia

A dare il colpo di grazia al servizio militare estero sono però soprattutto i fatti di Perugia del 20 giugno 1859.

In piena Seconda guerra d’indipendenza, la città umbra, che faceva parte dei territori della Chiesa, si solleva, indicando al delegato apostolico che Perugia vuole essere una città italiana. Quando la notizia arriva a Roma, alle truppe svizzere – 2’000 uomini comandati dal colonnello Schmidt – viene ordinato di marciare su Perugia.

I soldati del Papa, inferociti per l’imprevista resistenza dei perugini, riescono ad entrare in città dopo qualche ora di combattimenti. Il console elvetico a Livorno indirizza un dispaccio telegrafico al governo svizzero, menzionato in un rapporto di una commissione del Consiglio nazionale del 24 luglio 1859: «Dopo 3 ore di lotta fuori città, svizzeri entrati, combattimento proseguito due ore nelle strade; svizzeri hanno saccheggiato, ucciso donne inermi, l’indomani violenze, arresti, fucilata ricomincia, città in stato di assedio». Tre giorni dopo, il console annuncia che a Perugia i morti sono più di 100, tra cui molte donne e bambini.

La strage di Perugia – secondo alcuni ingigantita ad arte da Cavour, che l’anno successivo l’utilizzerà come pretesto per invadere le Marche – suscita grande sconcerto non solo in Italia, ma anche a livello internazionale.

Il giornale Il Diritto – citato nel rapporto della commissione del Consiglio nazionale – parla delle «barbarie delle orde svizzere» e evoca una «Saint-Barthélemy contro gli svizzeri». L’inglese Daily News scrive dal canto suo che «la Svizzera stessa, la madre e nutrice di queste bande di assassini, se ha qualche senso di vergogna e di riguardo all’onore, deve sentirsi avvilita […]. Se la Confederazione è indifferente a segno di permettere o debole talmente da essere incapace di impedire questa inumana profanazione delle armi di uomini liberi, essa è degna della riprovazione e del disprezzo del mondo civilizzato».

Le autorità svizzere iniziano anche a preoccuparsi per le manifestazioni d’ostilità nei confronti di cittadini elvetici. Il console svizzero a Milano indica ad esempio che il gerente di una tipografia, di nazionalità elvetica, è stato malmenato da alcuni suoi dipendenti. Sui muri del capoluogo lombardo appaiono anche dei manifesti con la scritta «Morte al Papa, morte agli svizzeri!».

Il colpo di grazia nel 1859

Questi avvenimenti spingono le autorità elvetiche a proibire l’uso degli emblemi cantonali sulle bandiere e soprattutto a emanare una legge contro gli arruolamenti al servizio di potenze straniere, che prevede la revoca temporanea della nazionalità per chi infrange il divieto.

A Napoli, i soldati svizzeri reagiscono con rabbia. Il 7 luglio scoppia una rivolta che sfocia in un violento scontro con le truppe napoletane, con morti e feriti da entrambe le parti. La maggior parte dei circa 7’000 militari elvetici se ne torna a casa, come emerge da una lettera datata 14 settembre indirizzata dal presidente della Confederazione Jakob Stämpfli al rappresentante britannico a Berna: «Stando ai miei calcoli, non possono esservi più di 600 uomini».

Uno dei pilastri sui quali poggia la monarchia borbonica viene così a cadere. I pochi mercenari che restano, integrano i reparti carabinieri esteri del colonnello svizzero Von Mechel, partecipando l’anno successivo agli scontri con i garibaldini e alla difesa di Gaeta. Una sorta di ultima battaglia per salvare l’onore dei pochi superstiti di un’epoca ormai superata.

Utilizzare il termine mercenario per definire i soldati svizzeri al servizio di Stati stranieri è riduttivo.

A partire dall’inizio del XVI secolo, la maggior parte di questi militari professionisti partiva all’estero con il benestare delle autorità del loro cantone. Le unità di soldati svizzeri erano infatti costituite spesso sulla base delle cosiddette capitolazioni. Queste convenzioni di arruolamento permettevano ai cantoni di svolgere il ruolo di intermediario tra i vari monarchi e i capitani delle compagnie mercenarie e di mantenere così un controllo sulle unità. Inoltre questi accordi consentivano di servire gli interessi della Confederazione, fornendo o meno soldati a tale o tal altro monarca.

Parallelamente continuavano però ad esistere gli arruolamenti illeciti di compagnie franche, comandate da capitani indipendenti che firmavano un trattato privato con il loro committente.

Molti svizzeri hanno partecipato ai moti risorgimentali anche a fianco dei patrioti italiani. Gli svizzeri – ed i ticinesi in particolare – sono accorsi in massa per sostenere i rivoluzionari durante le Cinque giornate di Milano e la successiva Prima guerra d’indipendenza (vedi articoli correlati).

Seppur in misura minore, diversi cittadini elvetici presero parte in seguito anche alle altre guerre d’indipendenza italiane. Tra i Mille di Garibaldi, ad esempio, vi erano anche alcuni svizzeri, come il luganese Natale Imperatori o lo zurighese Carlo Vagner. Inoltre, uno dei comandanti dell’esercito dell’eroe dei due mondi era Wilhelm Rüstow, cittadino prussiano fuggito in Svizzera nel 1850, che fece carriera anche nell’esercito elvetico, diventando capo della sezione di storia e statistica e colonnello di Stato maggiore.

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