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«Il commercio può salvare piante e animali»

Reuters

Il commercio internazionale di specie selvatiche non è sempre dannoso per l'ecosistema. Al contrario, può contribuire alla salvaguardia di piante e animali. Va però condotto in modo controllato e trasparente, spiega l'esperto svizzero Mathias Lörtscher.

Mathias Lörtscher è responsabile del settore Conservazione delle specie dell’Ufficio federale di veterinaria e dal 2004 lavora per la Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (CITES). Fa parte del gruppo di esperti scientifici del Comitato Animali.

Quale è stato l’episodio più increscioso da quando lavora per la CITES?

Mathias Lörtscher: Il massacro di elefanti in Camerun nell’estate 2012. I bracconieri hanno ucciso in un solo colpo centinaia di animali.

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E in Svizzera?

M. L.: Il caso più eclatante è quello di una persona che aveva acquistato e venduto illegalmente centinaia di trofei di caccia e oggetti di avorio. Ricordo anche un uomo responsabile di un vasto commercio di pappagalli. Ha importato delle uova di nascosto, le ha fatte schiudere e ha venduto i pappagalli facendoli passare per animali svizzeri.

I responsabili sono stati puniti?

M. L.: Certamente. Le pene prevedono anche la prigione. In questi casi è stata inflitta una multa di 40’000 franchi, il massimo previsto dalla legge.

Per 40’000 franchi varrebbe quasi la pena di correre il rischio…

M. L.: In un certo senso sì. Ma con la nuova legge CITES che entrerà in vigore nel maggio 2013 si potranno infliggere multe fino a un milione di franchi.

La Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (CITES o Convenzione di Washington) è stata adottata il 3 marzo 1973 su iniziativa dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (UICN).

Il suo obiettivo è di regolamentare il commercio di piante e animali, vivi o morti, e dei loro derivati (tra cui prodotti alimentari, articoli di cuoio esotico o avorio, strumenti musicali di legno, souvenir per turisti e rimedi medicinali).

Nella convenzione figurano esclusivamente le specie la cui esistenza è minacciata dal commercio internazionale. La CITES non va dunque confusa con la Lista rossa dell’UICN, la quale comprende tutte le specie minacciate.

La CITES copre circa 5’000 specie animali e 25’000 specie vegetali. Queste sono suddivise in tre categorie: l’annesso 1 vieta il commercio internazionale (salvo eccezioni), gli annessi 2 e 3 lo consentono a patto che questo sia sostenibile.

La Svizzera, sede dell’UICN e del WWF, è depositaria della convenzione. La messa in atto delle varie disposizioni è compito dell’Ufficio federale di veterinaria, in stretta collaborazione con le dogane.

I paesi firmatari sono 177.

Quest’anno si celebra il 40. dell’adozione della CITES. Quale decisione può essere annoverata tra i principali successi?

M. L.: Direi quella relativa ai coccodrilli. All’inizio della CITES, la maggior parte delle specie, compreso l’alligatore americano, erano elencate nell’annesso 1 della convenzione. Ciò significa che il commercio internazionale era proibito poiché minacciava la loro esistenza.

Grazie all’introduzione di un sistema di controllo, che prevede l’etichettatura della pelle di ogni animale, è stato possibile lottare contro il commercio illegale. Parallelamente abbiamo creato un sistema di monitoraggio degli effettivi.

Il risultato è che oggi il numero di alligatori è in aumento e il loro commercio autorizzato. La Svizzera importa ad esempio più di un milione di cinturini di orologio all’anno, soprattutto fatti di pelle di coccodrillo e alligatore.

Il commercio internazionale non nuoce forzatamente alle specie. Quando è controllato e sostenibile, può al contrario avere effetti positivi siccome la popolazione avrà interesse a salvaguardare le specie e il loro habitat.

Per quali specie la CITES non ha invece ottenuto i risultati sperati?

M. L.: Sostanzialmente due: l’elefante e lo storione. Per proteggere quest’ultimo abbiamo provato a etichettare tutte le scatole di caviale vendute. Uno sforzo invano: oggi lo storione selvatico non è commercializzabile visto che ne rimangono pochissimi individui.

Quali sono le ragioni di questi insuccessi?

M. L.: I paesi d’origine e di consumo non hanno rispettato le regole. Faccio l’esempio dell’avorio, il cui commercio internazionale è in principio vietato. In Africa ci sono due mondi: i paesi che controllano e proteggono gli elefanti, come il Sudafrica, il Botswana, la Namibia e in parte anche lo Zimbabwe, e i paesi che invece non vogliono, o non possono fare abbastanza per salvare i loro pachidermi. Spesso esiste un commercio locale di avorio, ma non viene contrastato.

Legalizzare la vendita controllata di avorio, ad esempio mettendo sul mercato gli stock dei depositi africani, potrebbe essere una soluzione?

M. L.: I paesi dell’Africa del Sud vorrebbero nuovamente l’avorio e utilizzare i ricavi per proteggere l’elefante e sostenere le comunità locali. Al contrario, altri paesi ritengono che la liberalizzazione non farebbe altro che intensificare il commercio illegale. Su questo punto anche la CITES è divisa.

Lei cosa ne pensa?

M. L.: Non ho una risposta univoca. Se mi avesse posto la domanda alcuni anni fa avrei detto di sì alla liberalizzazione. Quando però i paesi dell’Africa del Sud hanno avuto l’occasione di vendere i loro stock di avorio, in particolare alla Cina e al Giappone, si è osservato un aumento abbastanza netto del commercio illegale.

Forse si potrebbe liberalizzare il commercio di avorio, ma con regole più severe e coerenti.

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Questo contenuto è stato pubblicato al «Se si continua con questo ritmo, l’estinzione di alcuni grandi mammiferi sarà inevitabile», afferma a swissinfo.ch Pierrette Rey, portavoce di WWF Svizzera. Nel 2012, prosegue, oltre 10’000 elefanti sono spariti dalle foreste e dalle savane africane. Soltanto in Sudafrica sono stati uccisi due rinoceronti al giorno. Fino al 2007 i rinoceronti vittime dei bracconieri erano…

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Quali sono gli sviluppi attuali che più preoccupano?

M. L.: Il commercio mondiale è sempre più veloce e i paesi intendono facilitarlo ulteriormente. Per chi lo controlla, come noi, è pericoloso poiché le frontiere sono più permeabili. In questo senso, le dogane sono “i nostri occhi” e collaborano strettamente con l’Ufficio federale di veterinaria. Sosteniamo dunque la proposta del WWF di introdurre negli aeroporti cani specializzati nella protezione delle specie.

In che modo la CITES può spingere un paese a rispettare gli impegni presi?

M. L.: Ogni paese deve fornirci un rapporto annuale sul commercio delle specie selvatiche. Ogni tre anni il Comitato Animali e quello Piante della CITES consultano poi i dati del commercio. Possiamo inoltre chiedere ai paesi esportatori di dimostrare, dati scientifici alla mano, che l’attività commerciale legata a una data specie è sostenibile.

Se il paese in questione non collabora, il commercio internazionale per quella specie viene vietato. Per i paesi che intendono sfruttare le loro risorse naturali si tratta di un duro colpo.

Ma questo non rischia di favorire il commercio illegale?

M. L.: In effetti il rischio esiste. Abbiamo ad esempio vietato l’esportazione di alcune specie di pappagallo da certi paesi africani. L’anno successivo, i loro vicini che in precedenza non esportavano hanno iniziato a commercializzare pappagalli…

È questo il limite principale della CITES?

M. L.: Non direi. La nostra strategia è di utilizzare sia il bastone sia la carota. Da una parte aiutiamo i paesi a fare un commercio legale, trasmettendo loro anche un certo know-how. Dall’altra, se non rispettano le regole, vietiamo il commercio.

Il limite della CITES è piuttosto nella sua essenza: può intervenire soltanto nel quadro del commercio internazionale. Se in un paese una specie è in via di estinzione, ma non è commercializzata internazionalmente, non possiamo fare nulla.

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