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Perché nelle presidenziali americane nulla è come sembra

Limes

di Dario Fabbri (Limes)

Con la vittoria in Iowa rispettivamente di Hillary Clinton fra i democratici e di Ted Cruz fra i repubblicani si è aperta la lunga stagione delle primarie Usa. Liturgia che puntualmente affascina e confonde, specie gli osservatori internazionali. Nell’errata convinzione che la Casa Bianca sia l’istituzione più potente del paese e che il programma domestico dei candidati sia destinato per inerzia ad informare la politica estera della superpotenza.

Contrariamente alla propaganda che lo dipinge quale “leader del mondo libero”, secondo quanto stabilito dai padri fondatori il presidente della repubblica è solo uno degli ingranaggi della macchina federale. Figura inibita da checks and balances, destinata dalla costituzione ad intrattenere un complesso rapporto dialettico con gli altri componenti del sistema statunitense. Piuttosto, per prerogative conferite, l’istituzione più influente d’America è il Congresso. Solo lo stato di perenne bellicosità vissuto dalla superpotenza e la scientifica irresponsabilità dell’assise federale hanno imposto negli anni un’oleografica semplificazione del modello statunitense e collocato la Casa Bianca al centro della scena mediatica. Designandola – maliziosamente – quale principale referente dell’opinione pubblica. Ne era perfettamente consapevole l’ex presidente Harry Truman che sulla sua scrivania fece apporre la massima: “lo scaricabarile si ferma qui”.

Tuttavia la vulgata non ha mai intaccato i reali meccanismi governativi del paese, caratterizzati dalla preminenza del Congresso, luogo in cui si incontrano gli interessi dei cittadini e degli oligarchi, e dalla posticcia sovraesposizione del presidente. Nella realizzazione della politica estera, poi, l’amministrazione Usa si può considerare uno sgabello a tre gambe, segnato dall’interazione tra Casa Bianca, parlamento e agenzie federali (Cia, dipartimento di Stato, Pentagono etc.). In nuce: senza il sostegno rispettivamente del Congresso o dello stato profondo il presidente non è in grado di perseguire alcuna strategia. Solo in caso di grave crisi improvvisa, militare o economica, quando un evento catastrofico innesca l’incontinenza emotiva dell’opinione pubblica e causa il classico ritrarsi del parlamento, la Casa Bianca è in grado di imporre la sua linea. Altrimenti ogni proposito di natura internazionale annunciato in queste ore dai vari sfidanti deve essere valutato in base alla disponibilità (tutt’altro che scontata) di Congresso e apparati.

Analogamente la percepita moderazione in ambito domestico di un candidato non sempre si traduce in un medesimo approccio alle relazioni internazionali. Anzi, immaginare una corrispondenza diretta tra i due livelli è spesso fuorviante. Anche nel 2016. Così, nonostante le marcate differenze politiche, Bernie Sanders e Donald Trump condividono lo stesso afflato isolazionista, pensato per mantenere l’America lontana dai guai e costringere alleati e rivali a spendersi al suo posto. Allo stesso modo, sebbene non abbiano ancora compiutamente definito le loro posizioni, Hillary Clinton e Jeb Bush non paiono molto diversi. Perlomeno, non più di quanto fossero distanti Bill Clinton e Bush padre. Ted Cruz invece, raccontato come radicale in politica interna, si pensa realista (se non addirittura attendista) in campo internazionale e negli anni ha puntualmente votato in Senato per la riduzione delle spese militari. Mentre Marco Rubio, considerato il più moderato del fronte repubblicano, si mostra in perfetta sintonia con i neoconservatori di cui condivide la postura unilateralista.

Contraddizioni e complessità del sistema statunitense che puntualmente ingannano il pubblico straniero. Molto meno i cittadini americani, maggiormente consapevoli della ridotta rilevanza del presidente. Non a caso, più dei programmi politici, negli Stati Uniti l’elettorato tende a valutare la personalità dei candidati. Perché, se il presidente è in grado di imporre la sua volontà solo in circostanze drammatiche o improvvise, quando la normale filiera amministrativa è sospesa, allora più delle piattaforme elettorali (che non possono prevedere l’imprevedibile e che non possono essere realizzate unilateralmente) contano indole e carattere degli sfidanti. Un approccio bollato in Europa come superficiale. Eppure l’unico corretto nei confronti delle presidenziali statunitensi.

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