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Per rilanciare la sua politica estera, Erdogan può contare solo sulla geografia

Il puzzle etnico (LIMES)

di Dario Fabbri (Limes)

In seguito alla straordinaria vittoria ottenuta alle elezioni di domenica scorsa, il presidente turco Recep Erdogan è ora intenzionato a rilanciare la sua fallimentare politica estera. Ma presto potrebbe scoprire di avere dalla sua soltanto la geografia.

A dispetto di sondaggi e previsioni della vigilia, il partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) ha ottenuto il 49,5% di voti per un totale di 317 seggi, ovvero la maggioranza assoluta al parlamento e la possibilità di governare in solitaria. Esattamente quanto desideravano Erdogan e il premier Ahmet Davutoglu, benché non dispongano dei numeri necessari a modificare unilateralmente la costituzione. I kemalisti del Chp mantengono 134 seggi e i filo-curdi dell’Hdp 59 seggi, ma il loro potere negoziale si è nettamente indebolito. La strategia della tensione ordita dall’Akp, incentrata sulla magnificazione dei nemici interni (curdi e oppositori politici) ed esterni (ancora curdi e Stato Islamico) ha certamente sortito effetti positivi alle urne. E adesso, a patto che il paese non scivoli nel caos, Erdogan intende centrare in ambito internazionale quei risultati che finora gli sono sempre sfuggiti. A partire dalla Siria. Qui, fallito il tentativo di manipolare un intervento militare statunitense contro al-Asad, il presidente vorrebbe sostituire ciò che resta del regime alauita con un governo filo-turco di ispirazione sunnita. Oltre che impedire la nascita di uno Stato curdo tra Siria e Iraq. Allo stesso tempo, attraverso la gestione di profughi e migranti, vorrebbe costringere l’Europa ad elargire aiuti economici in favore del suo esecutivo e a sostenerne le ambizioni mediorientali.

Tuttavia, come nel recente passato, Erdogan rischia di rimanere profondamente deluso. La Siria, anche per colpa della Turchia, è ormai crisi troppo ingarbugliata e teatro nel quale si scontrano alcune tra le principali potenze del globo perché sia possibile immaginarla nella sfera di influenza di una sola nazione. L’intervento militare voluto da Putin impedisce la creazione di una no-fly zone e le rivendicazioni di iraniani, americani, sauditi e russi rendono praticabile soprattutto la partizione del paese, piuttosto che il mantenimento di uno stato unitario. Peraltro è ancora da stabilire chi debba realmente combattere lo Stato Islamico, a lungo foraggiato proprio da turchi e monarchie del Golfo.

Anche sul fronte curdo-siriano, la situazione appare ormai fuori dalla portata di Ankara. Probabilmente qui non nascerà un nuovo stato indipendente ma, con l’invio sul terreno di circa 50 militari da affiancare ai guerriglieri del Rojava, gli Stati Uniti hanno segnalato la volontà di puntellare la locale minoranza curda. Così come la vicenda libica, con il non riconosciuto governo di Tripoli di fatto dipendente dalla Turchia, è tuttora segnata da un’impasse totale.

Piuttosto, anche a causa degli errori commessi, ad Erdogan resta da sfruttare soltanto la favorevole posizione geografica del suo paese. Sebbene l’Europa non possieda alcuna capacità di influire sulla contesa siriana, nelle prossime settimane Bruxelles garantirà al governo turco notevoli aiuti economici per rallentare il flusso di migranti. Analogamente Stati Uniti e Russia, impegnati in un’informale guerra per procura, cercheranno di attirare dalla loro parte il leader dell’Akp, nel tentativo di ottenere il passaggio sul territorio turco rispettivamente del gas iraniano e di quello siberiano. Mentre il Pentagono prova a garantirsi il non scontato sostegno di Ankara, principale firmatario della convenzione di Montreux, in caso di guerra nel Mar Nero contro la Marina di Mosca.

Impedimenti interni ed internazionali che, in attesa di una razionalizzazione della strategia di Erdogan, concedono alla Turchia quasi esclusivamente il ruolo di terra di mezzo, tra la l’Europa e il caos mediorientale.

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