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Per impedire il brexit, a Cameron sarebbe bastato ignorare l’Unione Europea

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di Dario Fabbri

A volte i leader mostrano una autolesionistica tendenza a complicarsi la vita. Intenzionato a recuperare parte della sovranità perduta in favore di Bruxelles e a mostrarsi più risoluto dei nazionalisti, nel gennaio del 2013 il primo ministro britannico David Cameron ha promesso un referendum sulla permanenza del suo paese nell’Unione Europea. Sicuro di poter ottenere dalle autorità comunitarie corpose garanzie in materia di prerogative nazionali e protezione del welfare da convincere gli elettori a scegliere di rimanere nell’Ue, il premier ha sottovalutato la natura imprevedibile della consultazione popolare. Con il risultato che ora, terminato il negoziato e ufficialmente indetto il referendum, la secessione di Londra dallo spazio europeo appare pericolosamente possibile. Con effetti potenzialmente negativi per il peso internazionale e la tenuta stessa del Regno Unito. Quando, invece di affrontare la questione con tanto zelo, sarebbe bastato ignorare le istituzioni comunitarie.

Lo scorso 19 febbraio il governo britannico ha annunciato d’aver strappato a Bruxelles concessioni assai importanti. In particolare, la Gran Bretagna è ufficialmente esentata dal perseguire l’ulteriore avanzamento del progetto comunitario. Inoltre potrà limitare per sette anni l’accesso ai benefici del welfare da parte degli immigrati e rallentare l’approvazione di nuove norme proposte nell’ambito dell’eurozona. Bizantinismi a parte, intrinsechi ad un accordo che dovrà essere venduto all’opinione pubblica, è evidente che Cameron è riuscito a spuntare soltanto gli sgravi relativi allo Stato sociale. Visto che la differente velocità con cui Londra viaggia in ambito europeo era già stata sancita nel 1992 dal suo permanente rifiuto di adottare la moneta unica. Difficile dunque che quanto stipulato possa indurre gli euroscettici a cambiare opinione. A determinare le sorti del referendum, previsto per il prossimo 23 giugno, sarà la preconcetta contrapposizione tra coloro che considerano l’Europa un’opportunità politica ed economica e chi la ritiene un fardello ormai insostenibile.

Eppure si tratta di un dibattito che il Regno Unito potrebbe pagare caro. Giacché, aldilà delle conseguenze economiche, in caso di brexit i risvolti di natura strategica sarebbero rilevanti. Anzitutto, un tale sviluppo riaccenderebbe la questione scozzese. Improvvisamente confitta nella sola Gran Bretagna, Edimburgo potrebbe reclamare unilateralmente la propria indipendenza. Privando Londra dell’indispensabile profondità difensiva sul fronte settentrionale, ottenuta nei secoli con la conquista dell’intero arcipelago britannico. Così si assisterebbe all’ulteriore scadimento della “speciale relazione” con gli Stati Uniti, che potrebbero conferire ad un altro Stato membro il ruolo di testa di ponte negli affari continentali. Per tacere della successiva necessità da parte di Londra di negoziare con l’Ue un complicato accordo di libero scambio.

Scenari funesti che palesano la leggerezza di Cameron nell’indire il referendum e nel trattare con Bruxelles. Il premier britannico avrebbe conseguito risultati migliori muovendosi unilateralmente, in barba a trattati e norme europee. Ovvero la strada imboccata dalla Germania che da tempo viola gli accordi garantendosi uno straordinario surplus commerciale. O dai paesi dell’Europa centro-orientale che sospendono Schengen e costruiscono muri. O dalla Francia che contravviene al patto di stabilità. In piena disintegrazione comunitaria, il governo conservatore avrebbe avuto facile gioco nell’imporre la sua volontà, senza paventare il formale abbandono dell’Unione Europea. Convincendo simultaneamente gli elettori britannici della propria fermezza e i partner internazionali della propria (posticcia) fedeltà allo spazio continentale.

Invece rischia adesso di affrontare un nuovo isolamento, con possibile frammentazione del Regno Unito. Nell’amara consapevolezza d’aver ottenuto un mediatico status speciale che, nell’attuale Unione Europea, semplicemente appartiene a tutti gli Stati membri.

@dlfabbri

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