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Migranti, perché la Germania è più debole della Turchia

Limes

di Dario Fabbri (Limes)

Il vertice bilaterale di lunedì scorso tra la cancelliera Angela Merkel e il presidente turco Recep Erdogan è stato un incontro tra rispettive debolezze. Da un lato il leader della Cdu in caduta libera nell’apprezzamento dei suoi connazionali, che rischia di passare alla storia come il premier che ha spaccato la società tedesca. Dall’altro il “sultano” che finora ha mancato i principali obiettivi della sua politica estera e che deve affrontare il critico rallentamento dell’economia turca. Eppure in questa fase è la Germania – assieme all’Unione Europea – che rischia di pagare maggiormente l’avvitarsi della crisi dei migranti.

Giunta ad Ankara per la seconda volta in tre mesi, la cancelliera ha provato nuovamente a convincere il governo turco a trattenere i migranti diretti verso l’Europa. Già lo scorso novembre le autorità comunitarie avevano promesso alla Turchia circa tre miliardi di euro in cambio del mantenimento sul suolo turco di buona parte dei profughi, ma l’offerta non sembra aver persuaso Erdogan della necessità di gestire quasi unilateralmente il dossier. Non solo perché il presidente chiede più soldi e possibilmente il pagamento della cifra in una sola rata annuale. Né perché la Turchia ospita già più di due milioni di rifugiati siriani. L’onda umana proveniente dal Medio Oriente si è da tempo tramutata in un’arma da puntare contro lo spazio comunitario, giacché regolandone il flusso a piacimento Ankara può aumentare la pressione sulle cancellerie europee affinché intervengano nella guerra di Siria. Magari costringendo il regime baathista ad abbandonare Damasco, obiettivo perseguito dalla dirigenza turca fin dal 2011. Oppure semplicemente sfogando sul Vecchio Continente la frustrazione per l’impossibilità di incidere fattivamente sugli eventi mediorientali.

Di fatto una tattica in forma di ricatto che, se per Ankara è il segnale di una politica estera fallimentare, rappresenta una minaccia di carattere esiziale per la tenuta politica della Merkel e della stessa Unione Europea. Convinta di poter compensare attraverso l’accoglienza degli stranieri il previsto calo della popolazione nazionale e preservare in futuro lo stato sociale teutonico – oltre che per ragioni di mera solidarietà – lo scorso settembre la cancelliera ha deciso di aprire le porte ai rifugiati. Così nel 2015 Berlino ne ha accolti 1,1 milioni, innescando le vibranti proteste dell’opinione pubblica e causando un netto indebolimento di quella che fino ad allora era la mutti nazionale. Soprattutto l’afflusso massiccio di immigrati, unito alla psicosi per gli attentati di matrice islamica, sta determinando l’implosione dell’Unione Europea. Con Stati membri che si rifiutano di partecipare al programma di accoglienza varato da Bruxelles, altri che costruiscono muri, altri ancora che sospendono Schengen. Sviluppi potenzialmente drammatici proprio per la Germania che esporta il 47% del suo pil all’interno dello spazio comunitario e teme che alla chiusura delle frontiere nei confronti degli esseri umani possa seguire quella ai danni delle merci. Ovvero un cortocircuito che determinerebbe il disfacimento del sistema produttivo tedesco.

Non a caso è stata la Merkel a volare in Turchia. Per convincere Erdogan a spendersi nella gestione dei migranti e rallentare la disintegrazione dell’Europa. Con il cappello in mano.

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