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Le prossime elezioni e il futuro geopolitico della Spagna

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di Dario Fabbri

Alla vigilia di nuove, annunciate elezioni politiche la Spagna attraversa un momento di grandi cambiamenti. Dal sistema partitico, alla tenuta della monarchia; dall’unità territoriale, al ruolo da ricoprire all’interno dell’Unione Europea. Tra tendenze centrifughe, deficit istituzionale e una disoccupazione da record. La postura che emergerà da questa fase di assestamento determinerà il futuro del Paese.

Il tre maggio re Felipe VI ha sciolto il parlamento e indetto nuove elezioni per il 26 giugno. Malgrado la vittoria relativa registrata lo scorso dicembre, i popolari di Mariano Rajoy non sono riusciti a formare un governo di coalizione con nessuna delle principali forze politiche del Regno: né con i socialisti, né con i populisti di Podemos, né con i centristi Ciudadanos. Non solo a causa dell’assenza di una tradizione in materia di esecutivi misti. Nella Spagna attuale le confliggenti istanze perseguite dalle forze politiche sono rese pressoché inconciliabili dalle molteplici incognite e sfide che riguardano il Paese.

Anzitutto, la fine dell’alternanza bipartitica. Con gli storici soggetti elettorali non più in grado di dominare la scena e gli emergenti non ancora idonei per imporsi sul resto. Peraltro tutti i sondaggi definiscono impossibile l’eventualità che il prossimo giugno uno dei principali partiti ottenga i voti necessari a governare in solitaria. Nello specifico: i popolari sarebbero di nuovo in testa, seguiti da Podemos e socialisti. Di fatto la stessa paralisi dello scorso dicembre, probabilmente destinata a diventare la norma.

Quindi la grave crisi della monarchia, considerata ormai da molti spagnoli (specie di sinistra) non più funzionale alla vita della nazione e, come dimostrato dall’ultima irrisolta crisi di governo, incapace di agire da mediatrice tra le varie forze politiche. Se al termine della dittatura franchista in molti videro in re Juan Carlos l’ideale traghettatore verso la democrazia, oggi in molti temono che Felipe possa essere una zavorra sulla strada per una Spagna più efficiente e repubblicana.

A questo si sommano le endemiche tendenze secessioniste di molte regioni del Paese. Perché, soprattutto in caso di futuro governo debole, le richieste di indipendenza da parte della Catalogna e financo dei Paesi Baschi sono destinate ad intensificarsi. Specie se Madrid non ripenserà la redistribuzione del gettito fiscale e se nel frattempo la brexit conferirà nuova linfa alle numerose cause locali. Il rischio è la frammentazione del Regno favorita dal contesto internazionale.

Infine la Spagna sarà presto chiamata ad assumere una posizione definita in merito alle principali questioni riguardanti l’Unione Europea. Ad esempio scegliere se schierarsi con Francia e Italia per ottenere maggiore margine di manovra in materia di spesa pubblica. Oppure abbracciare la posizione degli altri governi mediterranei sul tema dei migranti. Il tutto sullo sfondo di una ripresa economica che, nonostante nel 2015 la crescita del pil abbia registrato un sorprendente picco del 3,2 %, ha solo modestamente intaccato il tasso di disoccupazione, fermo al 22%, il secondo più alto d’Europa dopo la Grecia.

Cornice inquietante per un affresco spagnolo che rischia di frantumarsi fra il grigio dell’impasse politica.

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