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La vittoria del lepenismo fa il gioco dei jihadisti

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di Dario Fabbri (Limes)

La schiacciante vittoria del Front National al primo turno delle elezioni regionali francesi è frutto di dinamiche sociali ed economiche nettamente precedenti agli attentati del 13 novembre. Eppure, aldilà di ciò che succederà al ballottaggio o alle presidenziali del 2017, tale risultato rischia di fare esattamente il gioco dei jihadisti.

Domenica scorsa il partito guidato da Marine Le Pen ha ottenuto a livello nazionale il 27,7% dei voti (oltre sei milioni di preferenze), tre volte meglio rispetto alle regionali del 2010, ed è in testa in sei regioni su tredici totali (tra queste Nord-Pas-de-Calais-Picardie e Provence-Alpes-Cote d’Azur). I repubblicani guidati da Nicolas Sarkozy hanno ricevuto invece il 26,6% delle preferenze, mentre i socialisti di Francois Hollande il 23%. Considerato il diffuso astensionismo (circa il 50% degli aventi diritto), il Front National è oggi sostenuto da appena un francese su sei e probabilmente al secondo turno si aggiudicherà soltanto alcune di queste regioni.

Principali ragioni della sua vittoria sono il conclamato declino economico della Francia e lo straordinario margine di manovra tipico di un partito che, libero da responsabilità di governo, può alzare i toni del dibattito politico senza essere chiamato a supportare le promesse con i fatti. A ciò si aggiungono le istanze nativiste di parte dell’opinione pubblica, da sempre diffuse nel paese. Ne deriva un messaggio elettorale tanto semplicistico quanto efficace: la crisi è soprattutto colpa dell’Europa (leggi dell’euro), degli immigrati che socialisti e gollisti hanno accolto negli anni e dei migranti che Bruxelles si rifiuta di respingere.

Tuttavia, nonostante il carattere endogeno e la portata relativa del fenomeno, l’affermazione del lepenismo avrà un ineludibile riverbero geopolitico. E poco conta se Marine Le Pen (forse) non diventerà mai presidente della Repubblica. La sua retorica securitaria e identitaria ha da tempo contagiato le altre forze politiche e modificato l’approccio del governo in materia di immigrazione e terrorismo. All’indomani degli eventi del 13 novembre, anche per violare il Patto di stabilità europeo in nome di accresciute esigenze di difesa, il presidente Hollande ha immediatamente definito “guerra” quella contro i jihadisti e – paradosso assoluto – proposto il perenne inserimento nella costituzione dell’attuale stato di allerta. Così Sarkozy, per scongiurare l’irrilevanza, ha introiettato molte delle formule retoriche dei lepenisti. Quello che tempo fa era il cordone sanitario repubblicano contro xenofobi e razzisti si è tramutato in un ventre molle ampiamente infiltrato dal nemico che si voleva isolare.

Perfino più rilevante, assimilata dall’intero panorama politico, l’isteria lepenista potrebbe favorire lo Stato Islamico. Obiettivo degli attacchi di Parigi, oltre a premere sull’Eliseo affinché abbandoni i propositi bellici anti-califfato, era proprio condurre la contesa sull’improbabile terreno dello scontro di civiltà. Perché i vertici dell’internazionale jihadista hanno bisogno che i loro avversari ne sposino la dialettica apocalittica per ammantare di religiosità le loro laicissime ambizioni. E il loro bacino di reclutamento si estende per inerzia all’intera ecumene islamica solo se, come proclamato dagli strali del Front National, ogni immigrato musulmano diventa un potenziale terrorista.

In un tipico meccanismo di dipendenza reciproca, in cui poli opposti si manipolano a vicenda per legittimare se stessi.

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