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La gazzarra in Senato e i trenta centesimi del tradimento. Perfetto per Renzi, che vince anche sul Jobs Act

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di Aldo Sofia

Per un’aula senatoriale che aveva già assistito a sguaiati festeggiamenti con champagne e mortadella, cosa sarà mai quanto accaduto per impedire il voto sulla riforma del lavoro? Le bestemmie, gli insulti, uno schiaffo, il lancio di un libro verso lo scranno della presidenza, quello di un tablet, e, per buon peso, la beffarda offerta di trenta centesimi al ministro competente Poletti, tanto per evocare gli evangelici trenta denari di un lontanissimo tradimento.

Una sorta di “gazzarra organizzata”, inscenata dall’opposizione (soprattutto Cinque Stelle e Lega Nord) per contestare varo e contenuti della nuova legge; ma soprattutto, nell’immediato, per fare a Matteo Renzi almeno un “dispettuccio”: rinviare alla notte il voto (poi ampiamente superato dal governo) per impedire al premier la soddisfazione di poter vantare il “gran risultato” davanti ai leader europei (Merkel testa) presenti al summit di Milano.

Questo il rovente atto di nascita del provvedimento che in Italia dovrebbe rivoluzionare i rapporti nel mondo del lavoro, soprattutto con la cancellazione/revisione dell’articolo 18, quello del reintegro dei lavoratori, il quarantenne tabù che aveva fin qui resistito ad ogni assalto. Sostituito (ancora non si sa bene come, visto che il contenuto arriverà per decreto) con una norma che elimina il reintegro per i licenziamenti economici senza giusta causa, ma che lo mantiene per quelli discriminatori (per esempio attività sindacale o appartenenza religiosa).

Non c’è solo questo, ma anche una serie di novità (sgravi alle imprese per le assunzioni stabili, sfoltimento dei 40 tipi di contratti attualmente in vigore, tutele crescenti in base agli anni di attività, estensione della turale della maternità alle donne senza contratto standard, nascita di un’agenzia per l’occupazione) nel tentativo di aumentare l’occupazione, diminuire la precarietà, attrarre investimenti esteri.

Ma la diatriba sull’articolo 18 – con la sua valenza simbolica – prevaleva su tutto. E alla fine Renzi (“non è all’ordine del giorno”, aveva detto ancora pochi mesi fa, e Confindustria sembrava del tutto disinteressata) l’ha imposta anche alla minoranza del PD: sempre in rivolta, ma in extremis sempre protagonista di “fermissimi cedimenti”. Ufficialmente per disciplina di partito. In realtà per un paio di ragionevoli calcoli: 1. il governo si salverebbe comunque grazie al soccorso di quel “carissimo nemico” (del premier) che si chiama Berlusconi; 2. il timore di elezioni anticipate, in cui i rivali interni del premier rischierebbe lo stritolamento.

In realtà, i casi di reintegro sulla base della “18” sono statisticamente pochissimi, nessuno attribuisce poteri miracolistici alla nuova legge, difficile che ora gli imprenditori comincino ad assumere di più, oppure che verso la Penisola si precipitino gli investitori stranieri (scoraggiati semmai da burocrazia, corruzione, tempi lunghissimi della giustizia).

Ma intanto Renzi mette a segno un’altra vittoria. A modo suo. Esaltando “l’anacronistico conservatorismo” di una parte (nello specifico anche il sindacato), trascinandolo clamorosamente in piazza, sollecitando l’indignazione della pubblica opinione (favorevole al cambiamento “a prescindere”), e riproponendosi in continuazione come l’impavido cavaliere all’assalto del vetusto Palazzo del potere.

In attesa del prossimo “nemico”. E così via per i prossimi mille giorni, come ha promesso. A meno che, con o senza articolo 18, non siano i morsi della crescente crisi economica e sociale a segnare con anticipo il suo destino politico.

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