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L’attentato di Ankara e la profonda crisi geopolitica della Turchia

I nodi irrisolti della spartizione ottomana Limes

di Dario Fabbri (Limes)

Il drammatico attentato avvenuto sabato scorso ad Ankara, con la morte di almeno 105 persone, ha palesato le intrinseche fragilità della Turchia, nazione che vive una drammatica crisi geopolitica.

Convinta di sfruttare le primavere arabe per insediare nelle nazioni coinvolte governi amici e sicura di telecomandare un intervento militare americano per rovesciare il regime sciita di Damasco, soltanto nel 2011 Ankara appariva in inarrestabile ascesa. Il potere dell’Akp, il partito di Erdogan, era inattaccabile e l’attuale presidente si diceva interessato ad inaugurare un processo di riconciliazione con i curdi del Pkk. Inoltre gli Stati Uniti consideravano il paese un modello di democrazia “islamica” ed erano disponibili ad allearsi con la Fratellanza Musulmana per sostituire i tiranni deposti dalle varie rivoluzioni. Il disegno neo-ottomano perseguito da Erdogan era in pieno svolgimento.

Quattro anni dopo, a circa due settimane dalle elezioni legislative, la Turchia si mostra sull’orlo dell’abisso. Se si esclude il libico governo di Tripoli, non riconosciuto dall’Occidente, ogni nazione protagonista delle sommosse risalenti al 2011 ha respinto l’ingerenza turca o ristabilito lo status quo (vedi l’Egitto).

Obama ha rinnegato il proprio sostegno alla Fratellanza Musulmana, ritenuta dall’Akp uno strumento utile ad estendere la propria influenza all’estero, e ampiamente contrastato le ambizioni da sultano di Erdogan, specie attraverso il sostegno fornito al network dell’imam Fethullah Gülen. Non solo. La Casa Bianca si è rifiutata di muovere guerra contro il siriano al- Asad e ha riabilitato l’Iran, storico antagonista della Turchia.

Il motto elaborato dall’attuale primo ministro Ahmet Davutoglu “zero problemi con i vicini” si è tramutato nel suo contrario. Mentre lungo i confini tra Turchia, Siria ed Iraq rischia di formarsi un’entità curda indipendente che potrebbe allacciarsi al Kurdistan interno e lo Stato Islamico, a lungo tollerato e indirettamente sostenuto da Ankara, è divenuto un soggetto del tutto fuori controllo. Con la Russia che ne sfrutta l’esistenza per giustificare il suo intervento in Siria, teso a puntellare il fronte alauita e ad impedire la nascita di una no-fly zone immaginata proprio da Ankara.

Anche sul fronte interno la situazione è diventata letteralmente esplosiva. Dopo che le elezioni dello scorso 7 giugno hanno privato l’Akp della maggioranza assoluta in parlamento e decretato l’ingresso nell’assemblea nazionale del partito curdo dell’Hdp, è ripresa la guerriglia tra le forze di polizia e i miliziani del pkk.

Improvvisamente il progetto presidenziale di Erdogan e l’unità territoriale del paese sono tornati pericolosamente in discussione. Così, fingendo a sua volta di colpire le istallazioni del califfato, Ankara ha iniziato a perseguire gli attivisti curdi in patria e a bombardare i miliziani curdo-siriani. L’obiettivo è sfruttare il disordine interno per indurre l’opinione pubblica a stringersi attorno al presidente ferito.

Se non fosse che ora il sanguinoso evento di Ankara promette di precipitare il paese nel caos. Perché che siano stati i jihadisti dello Stato Islamico o che si sia trattato di un attentato di stato, è evidente che quanto accaduto ci restituisce una Turchia ad un passo dalla guerra civile, non più immune agli sconvolgimenti del Medioriente. E nelle prossime settimane la situazione di criticità è destinata a perpetrarsi.

Stando ai sondaggi, anche le elezioni del primo novembre dovrebbero negare a Erdogan la maggioranza assoluta cui anela, con rinnovata impasse governativa. Allo stesso modo il rapporto tra esecutivo centrale e minoranza curda resta di alta tensione. Mentre Russia, Stati Uniti e Iran sono intenzionate a trattare del futuro della Siria senza curarsi dei desiderata del governo turco. Ormai il grande sconfitto dell’attuale congiuntura mediorientale.

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