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L’affermazione di Jeremy Corbyn cambierà la politica, ma non la strategia del Regno Unito

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di Dario Fabbri (Limes)

Già nelle ore immediatamente successive alla sorprendente elezione di Jeremy Corbyn a leader del partito laburista, le principali cancellerie del globo hanno cominciato ad interrogarsi sulle conseguenze che le sua peculiare estrazione culturale potrebbe avere sulla politica estera britannica. Tendenzialmente pacifista, anti-atlantista e filo-arabo, qualora diventasse premier, Corbyn potrebbe recidere il legame con Washington per avvicinare Londra al Medioriente e collocarla in posizione mediana tra l’Unione Europea e la Russia. Tuttavia, a dispetto di timori e previsioni apocalittiche, i cambiamenti determinati dalla vittoria di Jeremy “il rosso” riguarderanno pressoché esclusivamente gli affari domestici del Regno Unito piuttosto che le relazioni internazionali.

Benché eletto grazie ai voti di molti tesserati dell’ultima ora, Jeremy Corbyn è un laburista vecchio stampo, rappresentante di una corrente ormai minoritaria del partito. Quella veterosocialista che, in auge soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, non si proponeva di trovare una terza via quanto di opporsi al capitalismo. Che guardava con sospetto al modello americano e che sosteneva un terzomondismo post-sessantottino. Un approccio che, almeno nel personale caso di Corbyn, oggi si traduce nel rifiuto del sistema incentrato sulla finanza, nella difesa dello stato sociale e nella critica all’imperialismo occidentale. Abbastanza per attirarsi, da una parte, l’ostilità dell’establishment del partito – non più blairiano ma comunque centrista – dall’altra per sedurre giovani e classi meno abbienti che maggiormente hanno subito gli effetti dell’austerity imposta dal governo conservatore. Le stesse cause che hanno germinato movimenti quali Syriza in Grecia e Podemos in Spagna. Di fatto la risposta dell’estrema sinistra britannica ai nazionalisti di Ukip.

Sul piano internazionale, Corbyn vorrebbe che il Regno Unito abbandonasse la Nato e la special relationship che intrattiene con gli Stati Uniti; quindi sostiene l’uscita del paese dall’Unione Europea; ed è pronto a riconoscere straordinaria dignità alle relazioni anglo-russe. Propositi potenzialmente in grado di trasformare per sempre la collocazione internazionale del paese. Se non fosse che il neoleader non avrà la possibilità di attuarle. Non solo perché, vista l’audacia del suo programma, probabilmente non sarà mai eletto primo ministro. Le scelte strategiche di una nazione, specie del Regno Unito, esulano dai capricci dei politici e dipendono quasi esclusivamente dalle sue necessità geopolitiche. Dunque, anche se Corbyn raggiungesse il 10 di Downing Street, Londra non potrebbe misconoscere Washington per lanciarsi in avventurose iniziative bilaterali, giacché non sopravvivrebbe senza il sostegno militare ed economico garantito dagli Stati Uniti. Né sarebbe ancora un’isola, ovvero parzialmente immune agli sconvolgimenti continentali, senza il mantenimento dell’intesa con la superpotenza. Così come gli stessi laburisti non consentiranno al nuovo capo di spendersi per il Brexit. Già lunedì Hilary Benn, il portavoce per la politica estera del Labour, ha spiegato che il partito si batterà «affinché Londra resti in Europa».

Piuttosto la radicale agenda interna di Corbyn – incentrata sulla nazionalizzazione dell’elettricità e sul finanziamento coatto delle infrastrutture statali da parte della Banca di Inghilterra – avrà conseguenze molto rilevanti sulla politica britannica. Anzitutto, in assenza di un’evoluzione moderata, i laburisti rischiano d’essere travolti dai conservatori anche alle elezioni del 2020. Lo scenario per cui – salvo suicidi su sfondo europeo – anche nella prossima legislatura saranno i tories a governare il paese appare assai realistico. Allo stesso tempo la svolta massimalista impressa dall’ex sindacalista potrebbe indurre numerosi soggetti politici a guadagnare il centro. Ad esempio lo stesso Cameron che, ingolosito dalla possibilità di conquistare gli elettori delusi della sinistra, ora potrebbe decidere di distanziarsi dai nazionalisti. Oppure l’establishment laburista che compierebbe la scissione per presentarsi quale alternativa ad entrambi i leader. O ancora un nuovo movimento, capace con la propria verginità di anticipare i concorrenti. Del resto, indipendentemente dalla volontà espressa dai circa 400 mila tesserati che hanno scelto Corbyn, esistono milioni di elettori di centro-sinistra che non si riconoscono nel suo populismo.

Ragioni e dinamiche di uno sviluppo che non modificherà la congiuntura internazionale, ma che rischia di avere notevoli effetti collaterali sul tessuto sociale e politico del Regno Unito.

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