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Vita di un agente segreto svizzero

Uomo con cappotto e cappello, di schiena, varca il cancelletto di una palazzina numero civico 11
Nell'intervista, realizzata quando erano ormai passati 25 anni dall'ultima missione, dell'appartamento di 'Pakbo' si mostrò persino via e numero civico. RSI-SWI

"Si dice che diplomazia e spionaggio non siano che due facce di una stessa moneta", ricorda Marco Blaser in questo servizio del 1970. Non per caso è a Berna, la città federale che ospita decine di ambasciate, che il giornalista e futuro direttore della Radiotelevisione svizzera di lingua italiana incontra l'ex agente segreto Otto Pünter.

Pakbo, questo il nome con il quale per oltre 15 anni è stato al servizio degli alleati contro fascismo e nazismo, si è ormai ritirato dalla rete di informazione ed è pronto a rivelare cosa significasse, fare l’agente segreto nel ‘900. In particolare durante la seconda guerra mondiale.

Un mestiere avventuroso?, chiede Blaser. “Per svolgere un lavoro così bisogna avere il gusto dello straordinario”, spiega Pünter, ma niente di spettacolare alla 007″.

Di certo, è impegnativo: di giorno l’agente era impegnato come giornalista -uno dei più adatti lavori di copertura- e incontrava i suoi informatori, di notte passava ore a cifrare messaggi o miniaturizzarli.

Mano sinistra che tiene aperto l angolo sfibrato di una cartolina; mano destra sta per inserire una tesserina
Il “puntino” sul dito medio della mano destra è un’intera pagina di rapporto. RSI-SWI

Uno dei principali strumenti del mestiere era la microfotografia, con la quale l’agente segreto riduceva un rapporto di una pagina a un’immagine di 4 millimetri quadrati che, come mostra alle telecamere, poteva essere nascosta nella cellulosa di una cartolina postale.

La cartolina veniva inviata a un indirizzo di copertura in Portogallo, dal quale il rapporto ripartiva poi per Londra.

Cos’altro serve? Discrezione, tante fonti e capacità di distinguere le buone informazioni, ma soprattutto “essere coscienti della missione che si deve compiere”, sottolinea Pünter. “Nel nostro caso, la lotta contro il fascismo e in particolare il nazionalsocialismo”.

Immagine di un apparecchio che ricorda solo sommariamente una macchina da scrivere, accanto a un tavolino
Una macchina per cifrare realizzata dallo stesso Pakbo per far fronte ai periodi più caldi. RSI-SWI

Non mancano i brutti ricordi. A Pakbo, che non è mai stato armato di né rivoltelle né di coltelli o veleni, non è mai accaduto nulla, ma altri sono morti sul campo.

Amici o informatori, come lo erano stati prima della guerra i fratelli Rosselli, che gli erano stati presentati da un altro, noto antifascista: Randolfo Pacciardi.

Contenuto esterno

L’intervistaCollegamento esterno di Marco Blaser a Otto Pünter e alla moglie Marta Neuroni, che conosceva il lavoro del marito e ha occasionalmente partecipato al lavoro di informazione, fu diffusa il 12 maggio 1970 nella trasmissione ‘Incontri’.

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