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Il Ticino ad Expo: i perché di un no che non serve a nulla

Il presidente del governo ticinese Manuele Bertoli alla posa della prima pietra del padiglione svizzero Keystone

di Gino Ceschina

Ieri la popolazione ticinese ha accolto il referendum lanciato dalla Lega dei ticinesi contro il credito di quasi 3 milioni di euro approvato dal parlamento cantonale per partecipare ad Expo 2015.

A prima vista, provenendo da una zona ad una manciata di chilometri da Milano sembra una decisione miope e poco lungimirante: Expo potrebbe rappresentare un’ottima occasione per il turismo ticinese, per il commercio e per le manifestazioni che vi si tengono, dal Festival del cinema di Locarno alle varie kermesse musicali.

Ma la cosa diventa addirittura paradossale, se si considera che il Ticino, ad Expo, sarà comunque presente.

Temendo la malaparata, il governo aveva infatti varato il cosiddetto piano B (“per tenere fede agli impegni presi”): una partecipazione in tono minore che farà capo a donazioni di imprenditori privati interessati ad avere una visibilità all’esposizione mondiale, e ad un fondo di competenza esclusiva dell’esecutivo (quello della lotteria nazionale).

Considerato il fatto che anche se ieri il popolo avesse detto sì, l’investimento dai 3 milioni di euro iniziali sarebbe comunque stato di soli 2 milioni (perché nel frattempo una serie di progetti erano stati vanificati per ragioni legate alla tempistica), praticamente si è votato se dire sì ad una partecipazione in tono minore, oppure se dire sì ad una partecipazione in tono minore. Praticamente sul niente.

La democrazia diretta a volte ha anche qualche difettuccio.

Ma perché questo no, peraltro largamente prevedibile e previsto? E perché parlarne?

Perché sebbene ovviamente gli scandali emersi abbiano fatto la loro parte, in realtà, più che un no ad Expo, quello ticinese è stato, spiace dirlo, un no all’apertura, un no all’Italia, e un no alla stessa Unione Europea.

Il no ad Expo è figlio del sì all’iniziativa anti immigrazione del 9 febbraio quando i ticinesi furono i più pronti e i più numerosi a voler porre un limite, rimettendo al contempo in discussione gli accordi bilaterali con l’U.E.

I ticinesi come e più degli svizzeri vogliono rimanere isolati. E a questo punto questo è un fatto, non un’opinione. E questo fatto va capito, rispettato e tenuto in considerazione.

I motivi? I motivi sono parecchi: l’essere un cantone di frontiera (e che frontiera: il cantone è una sorta di “penisola nel mare italiano”), il timore mai tramontato di una sorta di assoggettamento culturale dell’ingombrante vicino, ma anche e forse soprattutto la paura del diverso, dove “diverso” sta per le migliaia di immigrati che arrivano in Italia dall’Africa, ma anche per la quotidiana invasione –pacifica, beninteso- di frontalieri che quotidianamente passano la dogana.

Il problema del frontalierato (sottolineo: del frontalierato, non dei frontalieri) ha assunto dimensioni oggettivamente serie. Siamo a un frontaliero ogni 5.5 residenti. E attenzione: fra i residenti, il 25% sono comunque stranieri, anche se in gran parte molto ben integrati.

Tutto questo preoccupa la maggioranza dei ticinesi. Il voto, ancora una volta, dimostra questo.

Di fatto quindi i ticinesi all’Expo non vorrebbero partecipare. In un certo senso perché si sentono già fin troppo esposti.

Fino a che punto poi ciò abbia un senso in un cantone dove si parla italiano, si seguono film e telefilm prodotti o comunque doppiati in Italia, si guardano le tv italiane, si segue la serie A e si compra la Gazzetta, è un altro discorso, e forse ha a che fare con quella ricerca dell’utopia insita nell’uomo che la tradizione popolare ha così ben riassunto nel detto “voler l’uovo e anche la gallina”.

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