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Il Giubileo di Francesco, un seme germogliato nelle catacombe

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di Aldo Sofia

Un seme può essere gettato e germogliare in una catacomba? Ed è possibile che il “Giubileo della misericordia”, voluto dal papa argentino, sia nato proprio in uno di quei sotterranei cimiteriali di Roma? Non sono domande campate in aria. Anzi, in qualche modo, è proprio quello che è successo. Attraverso un filo della storia poco conosciuto.

C’è una data d’inizio, il 16 novembre 1965. Mancano poche ore alla conclusione del Concilio Vaticano II. Durante i suoi lavori, un gruppo di prelati ha chiesto che nei testi conclusivi venga inserito un passaggio vincolante affinché la Chiesa cattolica abbandoni i simboli esteriori e le sue ricchezze per tornare al significato originale del Vangelo e della predicazione, evidenziando la necessità per il clero di impegnarsi in uno stile vicino alla gente, sobrio, lontano dalle tentazioni delle ricchezze e del poppiere politico. Poi decide di scartare quell’ipotesi. Si dice che lo abbia fatto perché, nel pieno della guerra fredda, non volesse trasmettere al mondo l’idea di una scelta politica, ideologica; preferendo rinviare quello stimolo ad una futura enciclica (la “Populorum Progressio”).

Fu allora che un gruppo di 42 prelati (diventati negli anni 500) provenienti da tutto il mondo si riuniscono nelle datacombe di Santa Domitilla. “Alla luce fioca della sera”, racconta un testimone. Non dei carbonari della Chiesa. Ma qualcosa che obiettivamente gli somiglia. Sottoscrivono un documento in dodici punti. Che recitano: rifiuto di essere chiamati con titoli altisonanti (eminenza, eccellenza, monsignore) ma con la semplice definizione di “padri”; si impegno a “vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione” in tutto e per tutto, alimentazione, abitazione, trasporti pubblici, eccetera; proclamano di “rinunciare per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza”, e “a beni mobili e immobili, e a conti in banca”. Insomma “Una Chiesa povera per i poveri”.

E sono le stesse parole che papa Francesco pronuncia poco dopo la sua elezione, il 16 marzo 2013. Con una convinta adesione a quel “patto delle Catacombe”. Non a caso la maggioranza dei vescovi che si trovarono nei sotterranei di Santa Domitilla erano di origine latino-americana. Uno, l’ausiliare di Cordoba Angelelli (assassinato negli anni della dittatura), era amico personale di Bergoglio. Alcuni di loro (primo fra tutti dom Helder Camara) saranno protagonisti della “teologia della liberazione”. Ma non fu una questione di “destra” o di “sinistra”. Vi aderì anche mons. Oscar Romeo, anche lui “abbattuto” da squadroni della morte mentre celebrava la messa: inizialmente molto legato alla parte più conservatrice della società, e poi coraggioso nel denunciare le ingiustizie sociali nel Salvador (“l’80 per cento delle terre nelle mani del 2 per cento della popolazione”). Così come nessuno ha mai visto in Francesco l’espressione della teologia della liberazione.

Certo, lo scandalo Vatileaks, scoperchiato dai due libri di Nuzzi e Fittipaldi sulla base di documenti indiscutibili, ci descrive una Curia in buona parte lontanissima dal Patto delle Catacombe: lusso, superattici, speculazione finanziaria, corruzione, conti bancari a sei cifre, e infiniti intrighi per il potere. “La Chiesa povera per i poveri” è ancora un sogno per il “papa venuto dalla fine del mondo”. In quel lontano 1965 Bergoglio non era ancora vescovo. Ma respirò l’aria di quell’invocazione. Ne ha fatto la sua cifra. La sua utopia.

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