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Franco sganciato dall’euro, solo ragioni monetarie?

Berna monetaria e Berna politica keystone

di Leonardo Spagnoli

La notizia del franco svizzero che si è sganciato dall’euro ha fatto il giro del mondo. Per la Banca nazionale elvetica (BNS), che ha acquistato centinaia di miliardi di euro per contenere la corsa della valuta nazionale che penalizzava pesantemente l’economia di esportazione, la difesa ad oltranza (all’incontrario) del franco non è più sostenibile.

Va però anche detto che quando nel settembre 2011 l’allora presidente della BNS Hildebrand – in piena tempesta finanziaria con lo spread che nelle successive settimane avrebbe costretto Berlusconi alle dimissioni – annunciò il tasso minimo di cambio del franco a 1,20 sull’euro, molti sollevarono dubbi, sostenendo che l’istituto d’emissione elvetico si sarebbe svenato in un’operazione che si sarebbe risolta in una mera goccia nel mare.

A convincere l’istituto di emissione c’ha pensato poi il contemporaneo apprezzamento del dollaro con l’imminente ulteriore allentamento monetario nell’Eurozona previsto nella riunione della Banca centrale europea del 22 gennaio. Su questa ricostruzione sembrano concordare più o meno tutti i commentatori. Ma vi è un secondo livello di lettura, su un piano più prettamente politico, che potrebbe delineare nuovi scenari e una nuova stagione nei rapporti tra Berna e Bruxelles.

Data per scontata l’autonomia decisionale della Banca nazionale svizzera, che gode ovviamente di tutta una serie di prerogative riconosciute anche dal profilo normativo, è difficilmente ipotizzabile una fuga in avanti del board di Bundesplatz senza un minimo di coordinamento con il Consiglio federale.

Consiglio federale che si trova nel bel mezzo di complicate e, per certi versi, controverse trattative con Bruxelles con cui i rapporti, inutile nasconderselo, si sono incrinati all’indomani dell’approvazione in votazione popolare lo scorso febbraio dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa. Sulla libera circolazione non si tratta, ha più volte ribadito la Commissione europea. E pure le trattative sull’accordo istituzionale con l’UE sembrano bloccate, il nuovo corso elvetico sembra infatti contraddire eventuali cessioni di sovranità in ambito normativo nei confronti dell’Europa.

Per questo forse ci si può porre l’interrogativo se dalle alte stanze dell’Istituto centrale non si sappia nulla di un’eventuale exit strategy su cui stiano forse riflettendo i consiglieri federali. E la mossa di Thomas Jordan (BNS), in questo senso, potrebbe anticipare un possibile riorientamento dell’economia elvetica imposto dalle difficili relazioni con Bruxelles.

Oggi la metà della ricchezza creata in Svizzera proviene dalle esportazioni, per buona parte nell’area UE. E l’eventuale revoca degli accordi bilaterali con Bruxelles penalizzerebbe le imprese elvetiche sul mercato continentale. Ma l’apprezzamento del dollaro e la stipula di altri accordi di libero scambio con paesi terzi, come quello recentemente sottoscritto con Pechino, offrirebbero un’ancora di salvataggio per l’economia elvetica che a questo punto giocherebbe la sua partita su mercati più lontani, come quello asiatico, medio-orientale e americano, che hanno continuato ad essere degli sbocchi interessanti per l’orologeria, le macchine utensili e i prodotti farmaceutici made in Switzerland.

E quindi alla fine la decisione odierna della BNS, che indubbiamente favorisce un riposizionamento delle imprese elvetiche sui mercati mondiali, emancipandosi da quello europeo, si potrebbe inserire in una più ampia cornice che coinvolge altri attori della Berna politica.

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