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Al Baghdadi e Renzi: “boots on the ground”

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Ricordo un viaggio a Mosul, nord dell'Iraq. Accompagnato da alcuni "peshmerga" ("quelli che stanno di fronte alla morte"), i combattenti curdi che verso la fine dell'era Saddam, che contro di loro era ricorso anche alle armi chimiche, avevano il controllo della regione grazie alla protezione dell'aviazione statunitense. Gli scomparsi (migliaia) per mano del dittatore, il sogno che allora sembrava impossibile di uno Stato curdo, e naturalmente la potenziale, futura ricchezza racchiusa sotto un suolo inzuppato di petrolio. Erano i loro principali argomenti.

Mosul, il nome che i conquistatori arabi avevano imposto all’antica Ninive, capitale assira citata anche dalla Bibbia, negli ultimi due anni è stata il simbolo dell’avanzata dello Stato islamico, che l’ha conquistata nel giugno di due anni fa (giorni tragici per la minoranza cristiana della città, fra deportazioni e violenze), e che ora è di nuovo sotto assedio, stavolta circondata dall’esercito del governo iracheno e dalle formazioni curde che vogliono liberarla dalla morsa del Califfato. Ma non solo. Ci sono anche truppe occidentali. E fra esse un contingente di circa 1’400 soldati italiani.

“Boots on the ground”, dunque, stivali sul terreno. Lo spettro a lungo evocato negli Stati Uniti e in Europa, per indicare la pericolosità di una simile scelta, ed escludere uno scontro a terra con gli uomini (compresi terroristi e kamikaze) dell’autoproclamato Califfo al Baghdadi. Un tabù che oggi cade. I militari italiani devono infatti varcare la cosiddetta “prima linea”, avvicinarsi alle trincee nemiche, esporsi alla rappresaglia, ufficialmente per proteggere la diga di Mosul sul fiume Tigri: che, in caso di situazione disperata, gli “uomini in nero” del Califfato potrebbero tentare di far saltare, con conseguenze disastrose, umane e ambientali, fino a Bagdad. Inoltre, si alza la minaccia di ritorsioni terroristiche sul territorio italiano, finora risparmiato dagli attacchi jihadisti.

Così, le calcolate esitazioni di Renzi sulla partecipazione alla guerra anti-Isis si sono trasformate in quella che dovrebbe essere la più massiccia e dichiarata presenza militare occidentale nel Medio Oriente in fiamme. Mossa coerente, dopo tanti tatticismi e teorici annunci. Se sia anche una mossa saggia, oppure un passo dentro la grande tagliola di un conflitto senza fine, lo dirà solo il tempo. Intanto, il premier italiano, vistosamente in difficoltà nei sondaggi, cerca di raccoglierne gli eventuali, anche se incerti, vantaggi politici.

Renzi gioca infatti la sua partita anche, e a volte soprattutto, sul piano esterno. Ritiene che – soprattutto in questa fase di contrasti con l’Europa a guida tedesca – l’appoggio degli Stati Uniti sia essenziale. E in cambio del coraggio della missione in Iraq, ottiene dall’uscente Obama un’accoglienza assai mediatizzata in Italia, nonché di straordinario calore. Tanto che il presidente della superpotenza offre proprio all’ospite italiano la sua ultima cena ufficiale alla Casa Bianca. E va ben oltre, auspicando pubblicamente che anche dopo il cruciale referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, qualunque sia l’esito, Renzi rimanga a Palazzo Chigi. Effetto “boots on the ground”?

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