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Aiuti di stato, una scomoda sentinella

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di Michele Polo, Lavoce.info

Un convitato di pietra siede a fianco di molte dispute che hanno contribuito ad accrescere le tensioni tra il Governo italiano e la Commissione Europea, la disciplina degli aiuti di stato. E’ infatti appellandosi al divieto di questi aiuti che la Commissione Europea si è opposta all’intervento del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi per salvare le 4 banche locali poi poste in liquidazione a fine novembre, con le perdite dei capitali investiti da azionisti e obbligazionisti subordinati. Nei prossimi giorni si aprirà a Bruxelles il dossier Ilva, per comprendere se i contributi pubblici che hanno permesso all’acciaieria di proseguire le proprie attività e avviare le prime fasi di bonifica ambientale siano da considerare come aiuti di stato, e quindi non possano essere erogati. Altri dossier, in modo forse meno appariscente, hanno passato il vaglio severo degli aiuti di stato, come il piano per lo sviluppo della rete a banda larga o i sussidi alle fonti rinnovabili.

E’ quindi utile richiamare le ragioni e i principi di questa disciplina, per uscire dalla logica degli schieramenti e comprendere se, da Bruxelles, arrivino interventi e freni impropri o invece uno stimolo a calibrare l’intervento pubblico secondo logiche di efficienza. La disciplina degli aiuti di stati si applica a tutte le forme di intervento pubblico diretto, attraverso trasferimenti, sussidi, strumenti di agevolazione fiscale e quant’altro, che impattino sui costi delle imprese creando artificialmente un vantaggio nei confronti di altri concorrenti che ne risultano invece esclusi. E’ quindi evidente che sono i più tradizionali strumenti della politica industriale, oggi tentata da una nuova primavera, a finire sotto la lente degli aiuti di stato.

Le regole comunitarie non implicano un divieto assoluto, poiché si riconosce che queste forme di intervento diretto possono avere giustificazioni che le riportano nell’alveo delle valutazioni di efficienza cui sono chiamate tutte le politiche dell’offerta, dall’antitrust alla regolazione alla politica industriale. Alla base di un intervento diretto deve tuttavia esserci un ben individuato fallimento di mercato, quale una esternalità ambientale, l’incapacità dei soggetti privati di realizzare investimenti che hanno un payoff generale, la garanzia di obiettivi pubblici quali la stabilità e difesa del risparmio, ecc. A partire da questi fallimenti del mercato le forme di supporto pubblico debbono realizzarsi nel modo meno distorsivo possibile, sia per entità dei contributi erogati che per la non discriminazione nell’accesso a questi, e operando in modo residuale dopo che altri strumenti siano stati adeguatamente utilizzati.

Rimane tuttavia un margine di flessibilità nel bilanciare i diversi effetti che ha portato, a seconda delle fasi del ciclo economico, ad una applicazione più o meno stringente. Il caso forse più evidente è proprio quello delle crisi bancarie, dove un elemento forte di esternalità riguarda l’impatto sistemico di un fallimento. Nelle fasi drammatiche della crisi finanziaria del 2008/9 il timore di un effetto a catena, che partendo dal fallimento di una azienda di credito avviasse un collasso generale del sistema del credito, ha portato ad allentare notevolmente i criteri per salvataggi attuati con fondi pubblici. Consentendo aiuti pubblici per 238 miliardi di euro (8% per PIL) alla Germania, 42 miliardi di euro (22% del PIL) all’Irlanda, e interventi superiori al 5% del PIL a Austria, Paesi Bassi e Portogallo. Quanto questi interventi siano stati giustificati da un reale timore di crisi sistemica, e quanto invece abbiano consentito di includere tra le aziende di credito beneficiarie istituti di piccole dimensioni incapaci di innescare effetti a catena è un punto di difficile valutazione, che comunque ad oggi non è stato adeguatamente indagato. Ma l’impressione di una fase di vacanza delle regole, di fronte alle priorità di tenuta del sistema, ha sicuramente dei buoni argomenti a cui appoggiarsi.

Venendo alle vicende di casa nostra, nonostante il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi sia alimentato dai contributi di aziende di credito private, e non gestisca quindi fondi pubblici, tuttavia la Commissione ha ritenuto che la natura obbligatoria dei contributi, unita alla governance del Fondo e al ruolo di autorizzazione della Banca d’Italia configurassero un organismo finalizzato a perseguire obiettivi di natura pubblica e non guidato da logiche puramente private. Il salvataggio delle 4 banche, inoltre, andava al di là della mera tutela dei depositanti, cui il Fondo è destinato, rafforzando la convinzione di uno strumento attraverso cui le politiche pubbliche utilizzavano fondi privati per finalità proprie. La natura locale di queste banche, infine, rendeva poco plausibile l’innescarsi di effetti a catena. Da qui il divieto secondo la disciplina degli aiuti di stato.

Ritengo che questi argomenti abbiano un fondamento, e il confronto con il trattamento ben più lasco di cui altri paesi europei hanno beneficiato nei primi anni della crisi, pur difficile da digerire, non modifica la bontà degli argomenti: aver peccato di lassismo in passato non è buon argomento per proseguire su questa strada.

Sempre che si giudichi la strada condivisibile. E da questo punto di vista ritengo che la disciplina degli aiuti di stato sia un presidio imprescindibile per evitare che le nuove sirene della politica industriale riportino l’orologio venti anni indietro, dando nuova vita a vecchi fantasmi come l’IRI.

In questo senso all’interno del Governo si colgono approcci e impostazioni differenti, che ad esempio sono apparsi evidenti nelle vicende delle nuove reti a banda larga di cui abbiamo spesso discusso sulla voce. Nell’ultimo anno si sono di volta in volta presentate impostazioni fortemente interventiste, che conferivano a Metroweb e alla società Infratel del MISE un ruolo di campione nello sviluppo delle nuove infrastrutture, quasi in competizione con gli operatori privati. E altre visioni che invece immaginano un rapporto di complementarietà, con il pubblico che investe dove i privati non hanno un ritorno sufficiente, le aree a fallimento di mercato, e che invece lascia campo libero a questi ultimi, eventualmente rafforzandone l’investimento con incentivi selettivi, nelle aree più sviluppate. Il passaggio a Bruxelles dei piani italiani ha sicuramente rafforzato questa seconda impostazione. Ma l’impressione è che una impostazione più interventista rimanga sotto la cenere e, ogni tanto, dia un bagliore.

Anche se a volte la disciplina appare amara e indigesta, meglio che le sentinelle degli aiuti di stato rimangano allerta.

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