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Agenda europea per l’immigrazione: la realtà dietro la retorica

tvsvizzera

di Maurizio Ambrosini

I passi avanti

L’agenda dell’Unione Europea per una nuova politica dell’immigrazione approvata dalla Commissione di Bruxelles contiene alcuni interessanti progressi: anzitutto, sul piano politico, per la prima volta tratta gli arrivi dal mare come una questione comunitaria, e non solo come un problema dei singoli paesi interessati dagli sbarchi. Ossia, sostanzialmente, in questa fase, dell’Italia.

Comporta poi un primo allentamento delle rigidità delle convenzioni di Dublino, introducendo un sistema di ricollocamento dei richiedenti asilo già entrati nel territorio europeo (non degli immigrati, come erroneamente si dice) a carico di ciascun paese, fino a un numero complessivo di 20mila persone.

Formalizza un impegno al reinsediamento di altri 20mila profughi accolti nei campi delle zone adiacenti alle aree di crisi.

Ultimo punto, ma non per importanza, mette sul piatto 60 milioni di euro.

L’agenda è stata sbandierata con molta enfasi dai politici italiani e da qualche voce raccolta a Bruxelles, ma resta in realtà timida, non condivisa da tutti i partner e soprattutto fuorviante su aspetti qualificanti.

Cominciamo dalla condivisione: Regno Unito, Danimarca e Irlanda hanno già fatto sapere che non parteciperanno. Alcuni paesi dell’Europa orientale, come Polonia e Ungheria, hanno espresso contrarietà, ma le loro posizioni non vengono prese troppo sul serio. Probabilmente, si confida nelle capacità di persuasione di Angela Merkel. L’assenso di Germania e Francia non deve illudere troppo: anche questi paesi sono in credito sul numero dei rifugiati. La Germania ha ricevuto nel 2014 circa un terzo delle domande di asilo presentate in Europa.

Accoglienza solo per 40mila

Ma i problemi maggiori sono altri e li abbiamo già segnalati. Persiste, anzitutto, la retorica dell’invasione e dei numeri ingestibili. Nella UE arrivano meno del 10 per cento dei rifugiati del mondo.

Ma anche rispetto ai 191mila nuovi richiedenti registrati nell’Unione Europea nel 2014, e ai 170mila sbarcati in Italia, la proposta di accoglienza e redistribuzione di 40mila profughi tra 25 paesi dell’UE appare molto lontana dalle necessità. Nella più ottimistica delle valutazioni, può forse essere considerata un riluttante avvio di una nuova fase.

Non è affatto vero, come si sta lasciando credere in questi giorni, che la quota dell’11,84 per cento assegnata all’Italia (9,94 per cento per i reinsediamenti) valga per il complesso dei richiedenti asilo che cercheranno rifugio sulle nostre coste nei prossimi mesi: riguarda persone già arrivate o persone oggi accolte in campi profughi prossimi alle zone di guerra. I nuovi sbarcati rimarranno sotto il regime precedente, cioè almeno in teoria a carico nostro. Con un’aggravante: arriveranno funzionari di Bruxelles a vigilare sull’identificazione e sulla corretta registrazione degli sbarcati. Se così sarà, il transito verso altre destinazioni desiderato dalla maggior parte dei profughi e benignamente tollerato dalle nostre autorità diventerà più difficile e aumenteranno le probabilità che rimangano in Italia.

Un nuovo muro

L’idea delle quote poi, pur segnando un primo superamento del “muro di Dublino”, per come è stata presentata rischia di istituire un secondo muro: blocca i rifugiati nel paese a cui sono stati ricollocati in quota. Ciò significa disconoscere i legami, le aspirazioni, le capacità progettuali dei rifugiati: se hanno parenti o compaesani in un altro paese, ne conoscono la lingua o semplicemente pensano che vi si troveranno meglio, non è giusto né ragionevole impedire loro di raggiungerlo. I rifugiati continuano a essere visti come soggetti passivi, che devono soltanto sottomettersi alle decisioni delle autorità che li accolgono. Non è un’impostazione rispettosa dei diritti umani. Sarebbe più sensato semmai prevedere di addossare i costi dell’accoglienza al bilancio comunitario, anziché a quello dei singoli Stati.

La proposta europea insiste poi, non senza successo, sulla criminalizzazione dei trasportatori. I fondi serviranno soprattutto a finanziare la vigilanza nell’ambito del programma Frontex, fino a immaginare l’uso della forza militare.

I richiedenti asilo in realtà oggi non hanno alternative e gli scafisti vendono un servizio che le linee aeree e marittime ufficiali non svolgono. Posti sotto pressione, peggiorano le condizioni di viaggio dei clienti trasportati: impiegano barche più vecchie, le affollano ancora di più, la fanno guidare dai profughi stessi.

Se l’UE volesse davvero sgominare il traffico illegale, dovrebbe prevedere canali d’ingresso sicuri, o misure di rapido reinsediamento di chi trova provvisoriamente scampo nei paesi vicini: non 20mila persone, ma molte di più. Ricordo che Libano, Turchia e Giordania accolgono ciascuno più rifugiati di tutti i 28 paesi dell’Unione Europea messi insieme.

Infine, l’UE ha riesumato la retorica dell’aiuto ai paesi di origine. In realtà, i profughi arrivano soprattutto da zone di guerra e repressione, Siria ed Eritrea in testa. Coloro che scappano non sono i più poveri del loro paese: nel caso siriano, quelli che riescono a raggiungere l’Europa sono perlopiù professionisti o commercianti con buona disponibilità di mezzi. Qualche aiuto al Niger o ad altri paesi africani non risolverà il problema.

Più in generale, i migranti non arrivano dai paesi più poveri del mondo. Proprio per questo, se anche si favorisse davvero lo sviluppo, obiettivo in sé più che auspicabile, il risultato almeno in una prima, non breve, fase sarebbe un incremento delle partenze: crescerebbe infatti il numero delle persone in grado di emigrare, mentre sul posto non aumenterebbero ancora le opportunità di una vita migliore per tutti.

La retorica è un aspetto non secondario dell’azione politica, e lo stesso vale per i simbolismi. Può darsi che l’agenda inauguri davvero una nuova fase delle politiche dell’asilo in Europa. Ma per ora rimane lontana nei risultati dall’enfatica propaganda che l’accompagna.

Paesi che si dichiarano campioni della tutela dei diritti umani devono ancora dimostrare di saperli difendere per davvero.

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