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Inseguire un sogno su un campo minato

A 13 anni, i talebani le hanno impedito di andare a scuola. Ma Roya Sadat non si è arresa. Rinchiusa tra le quattro mura di casa, si è formata da sola ed oggi è una figura di spicco del cinema afghano e di una nuova generazione che sogna la pace e la libertà. Un po' come la protagonista del suo ultimo film, "A Letter to the President", presentato al festival di Locarno nella sezione Open Doors. 

Questo contenuto è stato pubblicato il 10 agosto 2017 - 16:00
Stefania Summermatter, Locarno
Roya Sadat è la prima regista a realizzare e produrre film con successo dopo la caduta dei talebani. pardo.ch

«Non so ancora come sarà accolto il film nel mio paese….», afferma con pudore Roya Sadat, 34 anni e uno sguardo pieno di dolcezza. «È la prima volta che un film afghano mostra una donna forte, che a dispetto delle tradizioni e del fondamentalismo, cerca di essere sé stessa e lotta per seguire i suoi ideali». 

Opera sublime, "A Letter to the President" è stata selezionata a Locarno nella categoria Open Doors, che da 15 anni promuove i registi provenienti da regioni del Sud e dell'Est del mondo, grazie al sostegno della Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC). Per Roya Sadat, essere invitata a Locarno non è solo motivo di orgoglio, ma anche un'occasione per trovare dei distributori disposti a comprare il suo film e a farlo circolare nel mondo. Tanto più che in Afghanistan le sale cinematografiche si contano ormai sulle dita di una mano, vittime anch'esse di quarant'anni di violenze e soprusi. 

swissinfo.ch: Quando i talebani hanno preso il potere in Afghanistan, lei era ancora una ragazzina. In che modo questo periodo di repressione e violenza ha influenzato la sua vita e il suo lavoro? 

Roya Sadat: La mia storia è intrinsecamente legata a quella dell'Afghanistan. Sono nata sotto l'occupazione russa, poi è arrivata la guerra civile e infine i talebani. Ricordo ancora quella mattina. Il marito di mia sorella entrò nella mia stanza e mi disse: "Roya, non uscire per favore. I talebani hanno chiuso le scuole". Ero sotto shock. Come era possibile? È stato solo l'inizio di una lunga serie di violazioni dei diritti umani. Non ci credo ancora che abbiamo vissuto per cinque anni sotto i talebani. Le donne non potevano studiare e non potevano lavorare. Per uscire di casa dovevano sempre portare il burqa ed essere accompagnate da un uomo. Le mie sorelle erano piccole e col burqa non riuscivano nemmeno a camminare. E poi all'epoca le uniche figure maschili in famiglia erano mio padre e mio zio. Ma non avevano tempo di uscire sempre con noi. Così io restavo spesso a casa, leggevo libri di cinema, letteratura e storia. È allora che ho cominciato a scrivere la sceneggiatura di "Three Dots", il mio primo film.

swissinfo.ch: Durante l'era dei talebani però il cinema era vietato, molte sale sono state chiuse e dei film bruciati…

R. S.: Sì, era impossibile girare un film. Ho potuto iniziare il mio lavoro solo dolo l'11 settembre e la caduta dei talebani. Ma anche allora non è stato facile. Il paese era pieno di mine e il film è ambientato in mezzo ai campi. Ricordo che andavo sempre in avanscoperta tra i prati per essere sicura che non ci fosse una mina e solo dopo chiamavo la troupe. Ero assolutamente incosciente. Ora che ho due bambini, di tre e cinque anni, non lo rifarei più.

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swissinfo.ch: Come ha reagito la sua famiglia quanto ha saputo che stava girando un film? 

R. S.: I miei genitori mi hanno sempre sostenuta. Mio zio invece è venuto a casa e ha discusso in modo acceso con mio padre, perché non voleva che mi occupassi di cinema. Ci sono molte persone, d'altronde, in Afghanistan che ritengono che la cultura sia inutile, pericolosa e sovversiva. Il paese è stato teatro di guerre per oltre quarant'anni e ciò ha influenzato molto la mentalità della gente, rendendola più conservatrice. L'Afghanistan ha una lunga storia culturale, fatta di letteratura, cinema, musica e teatro, ma le nuove generazioni non ne sono consapevoli e non sono abituate a confrontarsi con l'arte. E poi c'è un grande sentimento di paura.  

swissinfo.ch: Il sentimento di paura è una costante tra la popolazione afghana? 

R. S.: Credo di sì. La gente non sa mai se ha di fronte un sostenitore dei talebani o dell'Isis e ciò crea un grande incertezza e un clima di paura. Inoltre gli attentati nel paese sono moneta corrente e una persona rischia di saltare in aria anche solo andando a fare la spesa o a pregare. Ma la vita va avanti e la gente è comunque piena di speranza per il futuro. 

swissinfo.ch: Qual è la sfida più grande con la quale è confrontato oggi l'Afghanistan? 

R. S.: Senza dubbio la sicurezza. Fintanto che non ci sarà una certa sicurezza nel paese, l'economia e la società civile non potranno svilupparsi e con essa l'intero paese. 

swissinfo.ch: Ogni mese centinaia di afghani fuggono in cerca di rifugio nei paesi limitrofi o in Europa. Lei è partita a studiare all'estero, ma poi è tornata. Perché? 

R. S.: Sono convinta che coloro che decidono di fuggire hanno buoni motivi per farlo. Lasciare tutto - casa, famiglia, radici - è una decisione estrema, che non viene certo presa alla leggera, soprattutto quando significa rischiare la propria vita sulla via dell'esilio. Non mi permetto dunque di giudicarli e spero solo che riescano a ricominciare una nuova vita in un altro paese. Per quanto mi riguarda, però, sono convinta che la mia vita sia in Afghanistan. Amo il mio paese ed è lì che voglio restare, lavorare e contribuire a costruire una società migliore, pur con tutti i rischi che ciò comporta. 

Nata nel 1983, Roya Sadat è la prima regista afghana a realizzare e produrre film con successo dopo la caduta dei talebani. Insieme alla sorella Alka Sadat, ha fondato la Roya Film House, la prima società di produzione afghana, e l'International Women's Film Festival. Nel 2017 ha diretto "A Letter to the President", il suo esordio nel cinema di finzione.​​​​​​​

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